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Migranti

Che cosa può insegnare l’Australia all’Italia su immigrazione e respingimenti

Conversazione di Italia Oggi con Marco Valerio Lo Prete, ex vicedirettore del Foglio, oggi in forza al Tg1, sulle pratiche delle politiche migratorie partendo dal caso Australia

«Bloccare i barconi con i migranti a bordo e rimandarli verso i paesi di provenienza non è per forza appannaggio di una sola parte politica. In Australia la pratica dei respingimenti è oggi largamente condivisa da Liberali e Laburisti, oltre che da un’ampia parte dell’opinione pubblica».

Marco Valerio Lo Prete, ex vicedirettore del Foglio, oggi in forza al Tg1, è un attento osservatore delle politiche migratorie australiane: «Ho iniziato a studiarle ai tempi del mio master, facendo ricerca all’Università di Melbourne, confrontandomi lì con studiosi e politici locali». Per il Foglio ha intervistato Andrew James Molan, il generale in pensione dell’esercito australiano, tra gli ideatori di «Confini sicuri», la politica di contrasto degli sbarchi illegali via mare del governo di Canberra.

Il ministro dell’interno Matteo Salvini ha detto di voler seguire il modello No way australiano per frenare gli sbarchi in Italia. Di che cosa si tratta?

Si tratta della politica dei respingimenti, avviata dal governo liberal-conservatore nel 2013, in base alla quale qualsiasi nave avvistata sui confini marini del paese viene fatta tornare indietro. Si gira la prua e la si manda verso l’Indonesia o da dove è partita. Ma l’idea che nessuno possa arrivare con un barcone sulle coste australiane ed entrare in questo modo nel Paese si era affermata già prima. I Laburisti iniziarono a dirottare le navi su isolette australiane o di altri Paesi; qui venivano esaminate le richieste d’asilo dei migranti che nel frattempo vivevano in centri di detenzione.

Cosa è cambiato nel 2013?

I conservatori con il premier Tony Abbott hanno ampliato i respingimenti, per cui la detenzione è divenuta solo l’extrema ratio. In questo modo si è potuto avviare lo svuotamento dei centri di detenzione.

Quali sono stati gli effetti?

L’effetto deterrente è stavo notevole: a fine agosto ha fatto notizia che 15 persone siano arrivate nel Paese a bordo di un peschereccio, perché negli ultimi tre anni nessuno era entrato in questo modo nel Paese. Nel 2014 erano arrivate 200 persone via mare; con la gestione laburista dell’anno precedente c’erano stati 21 mila sbarchi e centinaia di morti in mare.

Una politica molto rigida, di chiusura, quella del governo di Canberra.

Non è affatto così. L’Australia è paese di antica immigrazione, ancora oggi su 25 milioni di abitanti il 28% è nato all’estero. Canberra non dice «no» agli stranieri ma all’immigrazione irregolare. Chi vuole entrare deve rispettare le regole e le quote in ingresso stabilite ogni anno: per motivi di lavoro, ricongiungimenti familiari e motivi umanitari.

Di che flussi in ingresso parliamo?

I dati sono resi noti dalle autorità sempre in anticipo e con chiarezza, ed è un altro elemento che fa la differenza rispetto all’Italia: nel 2017 sono entrati 190 mila immigrati permanenti. La gran parte, 120 mila, è costituita da immigrati qualificati, selezionati per motivi di lavoro; gli altri arrivano per il ricongiungimento familiare. In aggiunta ci sono i rifugiati che hanno raggiunto quota 20 mila. Fatte le proporzioni, è come se in Italia entrassero regolarmente circa 500 mila residenti permanenti ogni anno. Oggi siamo molto sotto queste cifre.

L’immigrazione insomma è gestita in Australia?

Esattamente. L’Australia, anche attraverso l’operazione «Confini sovrani» che è soltanto una parte di un «modello» ben più complesso, dimostra che si può governare il fenomeno, facendo politiche anche generose di accoglienza ma ferree sul rispetto delle regole. Che una politica rigorosa di controllo dei confini è l’unico mezzo per sconfiggere i trafficanti di esseri umani, tutelare la sicurezza del Paese, garantirne la tenuta sociale e culturale, ed evitare infine le morti di innocenti in mare.

Ma la ricetta dei respingimenti in mare potrebbe essere applicata da noi? È davvero così facile girare la prua di un barcone, magari in avaria e con persone malate a bordo?

Sul fatto che sia facile, non posso provarlo. Anche perché sui dettagli del pattugliamento e dei respingimenti c’è stato finora molto riserbo, motivato dal governo australiano con l’esigenza di non avvantaggiare gli scafisti. Molan, ex generale dell’esercito australiano e uno degli ideatori di questa politica, mi ha spiegato che, nella massima sicurezza delle persone a bordo, si gira la prua degli scafi e si riaccompagna la nave al confine delle acque australiane. A quel punto la nave torna da dove è venuta, o cambia destinazione. L’ex generale non ha escluso che siano avvenute anche riparazioni in alto mare, o addirittura sostituzioni con navi nuove messe a disposizione dalla Marina. L’esito finale è sempre il respingimento.

Il dibattito su quanti uomini, donne e bambini muoiono in mare nel tentativo di fuggire da paesi in guerra o carestia non ha presa nel Paese?

Gli australiani hanno un approccio pragmatico, hanno maturato la convinzione che un’immigrazione ben gestita e supportata da politiche attive di integrazione sia sinonimo di ricchezza e sicurezza per il Paese. Allo stesso tempo accolgono attraverso canali legali numerosi rifugiati. Infine l’effetto deterrente dei respingimenti ha fatto sì che nessun barcone abbia più tentato la traversata, azzerando di fatto le morti in mare. Perfino l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati, ha ammesso che nei Paesi asiatici di origine dei flussi migratori il passaparola sulle politiche australiane ha cambiato l’attitudine dei potenziali migranti rispetto alle traversate da affrontare.

Come si entra per motivi umanitari in Australia?

Delle circa 20 mila persone in entrata per motivi umanitari, quasi 6-7 mila arrivano su segnalazione della stessa Unhcr, gli altri su segnalazione di Ong, ambasciate australiane all’estero ecc. Negli ultimi due anni è stato elevato il numero di rifugiati provenienti da Iraq e Siria.

Alla sinistra i respingimenti stanno bene?

Laburisti e Conservatori si dividono sulle quote per gli immigrati regolari, quelle da destinare ai lavoratori, ai ricongiungimenti o ai flussi umanitari. Ma non sui respingimenti. In vista delle prossime elezioni, i Laburisti, stando alle dichiarazioni fatte dai leader, non hanno intenzione di cambiare questa scelta dei liberal-conservatori. Il punto è che la deterrenza ha funzionato così bene che i trasferimenti nei centri di detenzione nelle isole del Pacifico non ci sono più. Ed erano le condizioni di permanenza in questi centri, permanenza che si protraeva per anni prima che i migranti fossero trasferiti verso altri paesi e mai in Australia, ad aver suscitato le maggiori critiche delle organizzazioni internazionali e di ong.

Qual è l’atteggiamento dell’opinione pubblica?

C’è un sostegno piuttosto diffuso non solo ai respingimenti ma alla politica complessiva di immigrazione. Anzi, proprio la mano ferma utilizzata contro l’immigrazione illegale, specie quella più mediatica dei barconi, ha fatto sì che l’opinione pubblica accettasse un livello più alto di immigrazione legale. Attualmente c’è un dibattito in corso sulla necessità di rivedere un po’ al ribasso il flusso in ingresso.

Differenze tra sistema australiano ed europeo?

Siamo agli antipodi. L’Australia ha un modello, in Europa c’è essenzialmente un «non modello», una non gestione del fenomeno, se non qualche toppa emergenziale. Da noi c’è stata a lungo la convinzione diffusa che l’immigrazione non si potesse gestire. Da una parte hanno pesato motivazioni ideologiche, come l’allergia ai confini; dall’altra una sorta di fatalismo che descrive l’Italia e l’Europa intera come incapaci per definizione di poter orientare un fenomeno epocale.

Qual è la lezione dell’Australia?

È una media potenza che controlla i confini, regola i flussi, stringe accordi con altri paesi per dividersi gli immigrati, prevede per chi entra regolarmente corsi di studio obbligatori di inglese, storia e cultura. Un Paese che in passato è arrivato a stabilire anche le concentrazioni di immigrati sul proprio territorio per evitare il fenomeno delle banlieue francesi.

Estratto di un articolo pubblicato su Italia Oggi

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