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Che cosa insegna l’imbrattamento della Foiba di Basovizza

Il dovere di parlare, il diritto di tacere. Considerazioni a margine dell'imbrattamento della Foiba di Basovizza (e non solo). Il corsivo di Battista Falconi

L’imbrattamento della Foiba di Basovizza, compiuto nell’imminenza del Giorno del Ricordo, ha suscitato un’ondata di indignazione molto forte ma connotata dalla solita parzialità ideologica: a levarsi sono state soprattutto voci di centro-destra, governative, in primis quella di Giorgia Meloni; da sinistra la condanna è stata più timida, articolata e talvolta ritorta contro la stessa maggioranza. Chiara Braga della segreteria dem, per esempio, è arrivata a dire che “governare non è gestire ricorrenze”. Ci troviamo quindi esattamente nella situazione che si profila più spesso a parti inverse e alla quale abbiamo assistito nei giorni scorsi, con l’opposizione che lamenta il mancato intervento del presidente del Consiglio sul caso Almasri, reputando insufficiente la presenza dei ministri Nordio e Piantedosi alle Camere.

Rientra nello stesso schema anche la polemica sulla mancata associazione dell’Italia alla condanna espressa maggioritariamente, ma non unanimemente, per le sanzioni stabilite dagli Usa contro la Corte penale internazionale. Come pure i commenti dopo la miserabile esposizione degli ostaggi liberati da Hamas, che ha riacceso il gioco speculare delle parti, per cui alcuni (in prevalenza di sinistra) si concentrano sulla condanna di Israele e sulla solidarietà alle vittime degli attacchi di Tel Aviv e delle Idf, altri puntano l’indice sulla natura terroristica di Hamas e delle formazioni similari, invitando i palestinesi a liberarsene.  In tutti o molti di questi casi non è difficile, se non si finisce nel vortice, riconoscere a entrambe le posizioni un fondo di ragione. Ma la polarizzazione funziona esattamente così: se c’è un avversario che dice alcune cose condivisibili, anziché mediare su quelle, si usano le differenze per marcare la distanza.

Si aggiunge poi, come aggravante, la funzione enzimatica dei nuovi media e delle nuove tecnologie. La possibilità di entrare nel minuto delle conversazioni altrui permette di contrapporsi non in base alle azioni omesse o commesse né alle dichiarazioni ufficiali, ma ai commenti privati, spesso battute di spirito, magari di gusto non ottimo, come nel libro sulle chat di Fdi del quale si parla in questi giorni. E che, a parer nostro, è metodologicamente non corretto: un tema sul quale forse l’Ordine dei giornalisti dovrebbe riflettere, nel momento in cui si lamenta giustamente lo spionaggio contro alcuni cronisti. E poi ci sono i social media, che sono notoriamente un formidabile acceleratore di stupidità: per rendersene conto, meglio osservare le conversazioni non su grandi temi epocali ma su questioni irrisorie, come il menù di un ristorante (guardo sempre con ammirazione i pochi personaggi pubblici che ancora resistono alla tentazione di usarli come volano di popolarità).

C’è quindi da rivalutare, assieme all’uso della ragionevolezza e dell’equilibrio, il diritto al silenzio, in taluni casi forse persino il dovere del silenzio. Non è sufficiente reclamare il dovere della parola per chi ha responsabilità e competenze su un fatto. Si tratta di temi vecchi, ci scusiamo anzi l’insistenza, ma l’episodio di Basovizza li riporta di attualità, anche perché rientra nell’eterna contrapposizione fascismo-antifascismo, rinfocolata nuovamente negli ultimi giorni (si vedano le puntate dei talk di questa settimana, da Piazza pulita in su e giù). L’uso distorto dell’antifascismo, infatti, è servito a lungo come orribile ed erronea attenuante per l’orrore titino delle foibe. Annotiamo in finale, per completezza, che il presidente Mattarella, a Gorizia, ha optato per quello che è apparso un riferimento implicito ma evidente all’atto vandalico: “Nulla può far tornare indietro la storia”.

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