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Davigo

Che cosa è successo con Davigo a Milano? I Graffi di Damato

Davigo ha ottenuto quello che francamente gli spettava, una volta designato dal comitato di presidenza a rappresentare il Csm all’inaugurazione dell’anno giudiziario nella “sua” Milano. I Graffi di Francesco Damato

Piercamillo Davigo ha dunque ottenuto quello che francamente gli spettava, una volta designato dal comitato di presidenza a rappresentare il Consiglio Superiore della Magistratura all’inaugurazione dell’anno giudiziario nella “sua” Milano. Sua, perché vi ha lavorato per tanti anni guadagnandosi, fra l’altro, negli uffici della Procura della Repubblica all’epoca di Mani pulite la fama di “dottor Sottile”, in concorrenza con l’omonimo della politica che era l’ex braccio destro di Bettino Craxi a Palazzo Chigi Giuliano Amato, destinato pure lui in qualche modo a diventare magistrato, facendo ora parte della Corte Costituzionale. Che di uomini può giudicare solo il presidente della Repubblica, se accusato di alto tradimento della Costituzione, ma di leggi può giudicarle tutte smentendo spesso il Parlamento: cosa che l’allora costituente Palmiro Togliatti, convinto com’era della sacralità parlamentare, e della politica, aveva previsto maturando il sospetto, quanto meno, che la Corte Costituzionale non fosse un affare per la democrazia, almeno come lui l’intendeva.

Piercamillo Davigo, dicevo, ha potuto fare quel che doveva, sino a prendere la parola, pur fra le proteste di 120 avvocati che contemporaneamente lasciavano la sala innalzando cartelli inneggianti agli articoli della Costituzione secondo loro minacciati, o addirittura calpestati, dalle frequenti esternazioni dello stesso Davigo. Secondo il quale, per esempio, gli avvocati tirerebbero troppo a lungo i processi per scommettere sulla prescrizione e insieme guadagnare di più, per cui si sono meritati la legge in vigore dal 1° gennaio, che abolisce sostanzialmente la prescrizione con l’esaurimento del primo dei tre gradi di giudizio.

Questo è anche il trofeo politico del ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede, strappato agli improvvidi leghisti ai tempi della maggioranza gialloverde e ora difeso dalle pressioni di alcuni partiti della nuova maggioranza giallorossa. Che vorrebbero una rapida e sicura definizione dei tempi del processo penale per renderli davvero e sicuramente “ragionevoli” come stabilito dall’articolo 111 della Costituzione. Diversamente avremmo processi simili ad ergastoli.

Davigo tuttavia ha pagato a caro prezzo il suo diritto di partecipazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano per conto del Consiglio Superiore della Magistratura di cui fa parte. E che, a conti fatti, potrebbe essere perfidamente sospettato nelle sue posizioni apicali di avergli voluto fare più un dispetto che un favore. Egli ha dovuto non solo assistere personalmente alla contestazione promessa e attuata nei suoi riguardi dagli avvocati ambrosiani, ma per non esasperare animi e situazioni si è tenuto alla larga, nel suo intervento, dai temi che con tanta sicurezza aveva sollevato rilasciando interviste e frequentando salotti televisivi fra lo sbigottimento appunto degli avvocati, e non solo. Davigo ha preferito occuparsi dei problemi interni alla magistratura parlando del lavoro del Consiglio Superiore e dell’aumento dell’attività di sorveglianza e di sanzione delle toghe.

Oltre ad accantonare i suoi abituali e urticanti argomenti, l’ultimo dei quali è stata la convenienza teorica dell’uccisione del coniuge rispetto ai tempi della separazione legale, Davigo ha dovuto ascoltare il procuratore generale della Corte d’Appello Roberto Alfonso. Che, dopo avergli espresso “solidale amicizia”, ne ha smontato l’opinione sulla nuova disciplina, diciamo così, della prescrizione denunciandone il contrasto con i principi e le norme della Costituzione. Il ministro Bonafede, presente e dichiaratamente stanco di sentirsi etichettato da altri come un “manettaro”, non ha gradito e lo ha detto. Neppure Davigo deve avere gradito, ma una volta tanto ha dovuto tacere.

Sul piano mediatico il bilancio della missione, chiamiamola così, di Davigo a Milano è stato ancora più negativo. Sulla prima pagina del Corriere della Sera, per esempio, egli ha dovuto incassare un urticante commento di Aldo Grasso, che gli ha contestato di essere ormai passato dalle sottigliezze ai “paradossi”, tanto da meritare un cambiamento del vecchio soprannome guadagnatosi da semplice sostituto procuratore negli anni Novanta del secolo ormai trascorso.

Sulla prima pagina del Fatto Quotidiano Davigo si è visto difendere nel peggiore dei modi, con articoli e titoli di dileggio degli avvocati, ambrosiani e non, che hanno disseminato di proteste contro le posizioni davighiane un po’ tutte le cerimonie giudiziarie delle Corti d’Appello, in un caso ammanettandosi in pubblico, Questi avvocati sono stati bollati come quelli “delle cause perse” dal giornale dove Davigo è sostanzialmente di casa per le interviste che gli concede e per gli elogi che gli rivolgono. E il direttore Marco Travaglio, con la mania che ha di storpiare i nomi alle cose e agli uomini quando non gli piacciono, ha fatto diventare “penose” le Camere penali già nel titolo dell’editoriale scritto intingendo più del solito il metaforico pennino nel veleno.

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