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Cosa non capisco della “chiamata alle armi” del Corriere per la democrazia e contro Kirk

Riflessioni a partire dalla cazzullate del Corriere della Sera sull'assassinio di Charlie Kirk. La lettera di Teo Dalavecuras

Caro direttore,

quando un giornale orgogliosamente destrorso come Libero (scrivo “orgogliosamente” pensando non tanto all’attuale direttore quanto al fondatore) titola “Quegli applausi contro Kirk macchia eterna”, viene da pensare che il pregiudizio favorevole a qualsiasi espressione culturale, ma anche meramente verbale, che si autoqualifichi come progressista è destinato a sopravvivere – quello sì – in eterno, almeno in Italia: anche se la signora Meloni, dotandosi di poteri paranormali, collocasse al vertice del ministero della Cultura un redivivo Leonardo da Vinci.

Non uso di proposito termini come “destra” e “sinistra” non solo perché, da antico discepolo di Giorgio Gaber trovo che da decenni siano privi di contenuto nel discorso politico ma, soprattutto, perché ne usano e abusano proprio i progressisti che pure, a forza di promuovere maggioranze “tecniche” o di unità nazionale,  e di gabellare per “europeismo” la rinuncia delle classi politiche nazionali alle loro prerogative e responsabilità a beneficio di una gestione amministrativa e centralistica dello spazio europeo, hanno finito di svuotare questi termini. Arrivando col politologo progressista Gianfranco Pasquino a teorizzare per i parlamenti un ruolo non più di espressione suprema della sovranità nazionale e quindi degli orientamenti politici del Paese, ma di controllo (sic) dell’attività del Governo, ormai titolare esclusivo dell’iniziativa politica. Con la conseguenza che le categorie di “destra” e “sinistra” perderebbero ogni collegamento anche con la loro “etimologica” origine nel Parlamento del 1789.

Mi scuserai, direttore, per questa lunga premessa, ma mi serve per farti capire perché ho trovato di qualche interesse alcuni interventi successivi all’assassinio di Charlie Kirk sul Corriere della Sera, media mainstream per antonomasia. Il 13 settembre, all’argomento dedica la sua attenzione quello che – quanto meno in termini di larghezza dello spettro di argomenti coperti – è l’opinionista principe del quotidiano milanese, Aldo Cazzullo. Nella sua rubrica di posta dei lettori intitola la “risposta” quotidiana così: “Combattere le idee dei Kirk con i corpi non con i fucili”. Titolo che incuriosisce ma ti dico subito che anche dopo aver letto un paio di volte la risposta al mitico lettore, che cosa Cazzullo intenda per combattere “con i corpi” non l’ho capito. Ma in fondo non è importante, quel che mi ha disturbato era proprio il titolo, quella scelta, a cadavere di Kirk ancora caldo, di privarlo della sua qualità di persona degradandolo a elemento di una “classe”, la classe “dei” Kirk.

Esagero, direttore? Può darsi e infatti non insisto. Il punto che meriterebbe un minimo di attenzione e di approfondimento è un altro. Nella risposta al mitico lettore che scrive: “la morte di Charlie Kirk è una tragedia. Ma quando odio e violenza entrano nella politica, che cosa ci si può aspettare?”, Cazzullo conclude che “dobbiamo” difendere i diritti di libertà e uguaglianza non con le armi ma coi nostri corpi. Lascio a interpreti più intelligenti di me l’ultima proposizione e mi fermo sul “dobbiamo”. Perché dovremmo? L’opinionista è più che libero di auspicare che tutti i suoi lettori si sentano in dovere di “difendere” i diritti (bella impresa di per sé) ma “dobbiamo” dice un’altra cosa. E anche se mi sono soffermato sulla chiusa della risposta, l’idea che tutti si “debba” combattere le idee che non condividiamo pervade l’intero testo. Che è un modo sicuro per intossicare il discorso pubblico.

Dico questo perché c’è un precedente. Ma prima di parlare del precedente devo aggiungere che il giorno dopo Cazzullo ritorna sull’argomento col buffo titolo: “Condanniamo l’omicidio di Kirk e lasciamo stare Bella Ciao”. Buffo perché nessun nemico del popolo ha “tirato in ballο” Bella Ciao, ma lo stesso omicida – si è letto sui giornali – l’avrebbe incisa su un proiettile. In realtà la “risposta” del giorno dopo non è tanto dedicata a Kirk quanto alla tesi sulla duplice Resistenza, quella elitaria fino al 1943, e quella di popolo a partire dall’8 settembre. É consentito supporre, direttore, che Cazzullo abbia voluto aggiustare il tiro dopo essersi riletto?

Ma sul Corriere del giorno dopo, oltre alla seconda “risposta a un lettore” di Cazzullo, c’è un editoriale in prima pagina di Walter Veltroni che si intitola “I barbari fra noi”. Si parla di nuovo di Kirk, ma anche dei fratelli Mattei, della “schiuma di rabbia bipartisan” ed anche, tra l’altro, di Nancy Pelosi. “Esponente democratica” la definisce minimizzando Veltroni, per osservare che non c’erano né cellulari né telecamere quando un militante Maga si è introdotto nella sua abitazione e ha preso a martellate il marito. Altro esempio di barbarie (ma anche, verrebbe da dire, di totale sciatteria: Pelosi era allora una dei più influenti esponenti del gruppo dirigente del partito democratico, sicché già il fatto che un energumeno dello schieramento avversario si sia potuto infilare indisturbato nell’appartamento newyorchese di una delle più autorevoli leader democratiche potrebbe risvegliare qualche curiosità. Invece niente, solo alti lai).

E vengo, dopo avere abusato della tua pazienza, al precedente, che è l’editoriale del Corriere di venerdì, questa volta di Maurizio Ferrera, cattedratico di scienze politiche a Milano che, al dialogo con Rousseau, Hobbes e compagnia bella alterna, in veste di assiduo editorialista, autorevoli interventi sul quotidiano milanese. Anche in questo caso il titolo è da mobilitazione generale, “Le minacce alle nostre democrazie”, benché a quel punto la micidiale pallottola che avrebbe posto fine alla vita di Kirk non fosse ancora stata esplosa.

Il professor Ferrera, muovendo dalla violazione dello spazio aereo della Polonia da parte di droni russi allinea alcuni fatti: che la Cina non ha preso posizione sull’episodio, che ancora la Cina fornisce almeno il 60% della tecnologia che serve ai droni russi, che sempre la Cina sostiene lo sforzo bellico della Russia contro l’Ucraina. Ma questo, puntualizza Ferrera, è solo “la punta dell’iceberg di un confronto planetario che oppone le democrazie liberali ai regimi autoritari”. E i regimi autoritari, aggiunge, si stanno trasformando in un “blocco” sempre più organizzato. “I suoi tentacoli si estendono ormai in molti ambiti: militare, economico, politico e ideologico”.

Qual è il problema, potrebbe chiedersi uno spirito non sufficientemente pronto a allinearsi, ma il professore, cui non fa difetto il dono della chiarezza, risponde: il problema è che le opinioni pubbliche delle democrazie liberali non appaiono sufficientemente consapevoli di questo “confronto a tutto campo” e soprattutto del fatto che la rete tentacolare dei regimi autoritari è lo strumento “di un’unica e deliberata grande minaccia”. Una chiamata alle armi in piena regola con un retrogusto di “complottismo”, se non fosse che la provenienza inequivocabilmente progressista della chiamata rende inutilizzabile questo concetto, che per convenzione può connotare soltanto argomentazioni di provenienza conservatrice.

Questo solo per dire che il modo come è stato trattato l’omicidio di Kirk nei giorni scorsi sembrerebbe un’ottima e abbondante risposta alle preoccupazioni del professor Ferrera e in qualche modo le ridimensiona – se consideriamo com’è giusto il Corriere affidabile espressione dell’opinione pubblica, intesa come opinione che il pubblico deve condividere. Anche se, per dirla tutta, del povero Charlie Kirk prima del suo assassinio non avevo mai sentito parlare mentre, a giudicare dai contributi giornalistici post-mortem, gli operatori dell’informazione non facevano altro che seguirne gli interventi nei campus americani. Ma era solo per la formazione continua, evidentemente: da vivo Kirk non era considerato argomento adatto al pubblico dei lettori.

Una confidenza, per finire. Da qualche tempo mi sorprendo a chiedermi perché, quando le democrazie occidentali erano “soltanto” democrazie mentre a qualificarsi, con l’aggettivo “popolari”, erano i paesi satelliti dell’Unione Sovietica, salvo minoranze numericamente ridottissime nessuno in Europe occidentale dubitava di vivere in paesi democratici, mentre oggi che felicemente viviamo nelle “democrazie liberali” questo dubbio pare interessare molti milioni di elettori in Europa. Il problema è che non si capisce a quale ramo delle “scienze umane” ci si possa rivolgere per risolvere questo dubbio. Hai un suggerimento, direttore?

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