Per una volta i commentatori benevoli, obiettivi e ostili non sono troppo distanti nell’interpretazione del viaggio che Giorgia Meloni, last minute, ha deciso di fare a Parigi, così da essere presente all’inaugurazione della rinnovata cattedrale di Notre Dame e alla successiva cena all’Eliseo. Facendo “arrabbiare” la figlia per l’improvvisa partenza: dettaglio, questo, non di voyeurismo pettegolo ma che rientra nel significativo sacrificio personale e privato che la premier compie da due anni.
Meloni ha voluto esserci, nonostante fossero pochi i capi di governo presenti e fosse a rappresentarci già Sergio Mattarella (il capo dello Stato ha addirittura disertato la prima della verdiana “Forza del destino” alla Scala, splendida se si dimentica qualche fischio anti-russo). Necesse est, considerata la presenza di Donald Trump e quindi l’occasione di incontrarlo “privatamente”, rimarcando il rapporto positivo che corre tra i due e il ruolo che l’Italia può giocare nei rapporti Usa-Ue.
Certo, il risultato è meno appariscente dell’incontro politico svoltosi tra il rientrante presidente statunitense, Volodimir Zelensky (che la premier ha sentito al telefono prima di partire) ed Emmanuel Macron, che ha sfruttato il vantaggio del padrone di casa. Al presidente francese non si può che dire: “Chapeau!”. Arrogante, antipatico, incarna appieno la grandeur, propria e francese, soprattutto ora, nell’estrema difficoltà istituzionale, durante la crisi interna più grave degli ultimi sessant’anni. Non schioda dall’Eliseo e una seratona mondana gli è bastata per ricordare il ruolo storico giocato da Parigi nelle grandi crisi internazionali e nei rapporti atlantici. Un primato che persino adesso non trova rivali adeguati.
Se Parigi piange, altre capitali non ridono. La Germania sta messa come sappiamo, la Gran Bretagna è fuori dall’Ue, che a sua volta regge su una maggioranza molto meno solida che in passato. A Madrid c’è un capo che ha forzato i numeri per restare in sella (Meloni, a proposito, vedrà a breve i Reali di Spagna). Invece l’Italia gode di una stabilità politica quasi inedita, con un partito di maggioranza relativa che non ha troppo da temere dai propri alleati né tantomeno dai suoi avversari, tutti molto rumorosi ma poco pesanti in termini elettorali e interessati solo a beccarsi a vicenda. Un classico “divide et impera”.
In questo frangente, il governo ha portato a casa risultati positivi. L’Italia cresce da molti punti di vista. Certo, restano problemi enormi: dal risiko bancario alla crisi dell’automotive, dalla scarsità delle retribuzioni alla insostenibilità dei servizi socio-sanitari, fino alle difficoltà del manifatturiero e dell’export. La situazione è di una complessità da far perdere la testa. Persino l’antipatico Macron può essere un alleato utile per contrastare l’accordo Ue-Mercosur con l’obiettivo di proteggere la nostra agricoltura, fine che ha animato varie scelte governative ma che contrasta con altri non meno importanti traguardi in termini di adeguamento alle sfide globali dei mercati.
L’Italia dovrebbe superare ancora alcuni gap per assumere una vera leadership: sono lì a ricordarcelo i riconteggi del Pil, che hanno messo in discussione la maggior crescita italiana rispetto a quella dei partner. La questione principale però non è quella dei numeri macro-economici, è il sistema-Paese. Berlino e Parigi sono capitali di Stati solidi, come usa dire oggi “resilienti”, perché lo sono la struttura delle istituzioni e la cultura diffusa.
In tal senso la rivoluzione italiana portata avanti dall’attuale inquilina di Palazzo Chigi è ancora incompiuta (che si tratti di una rivoluzione non c’è dubbio, Meloni non cerca il consenso per restare a galla, è animata da un “italian pride” evidente, da un nazionalismo adamantino). Le nostre difficoltà maggiori sono un sistema-Paese cronicamente debole, la sfiducia permanente tra Stato e cittadini, l’inefficienza patologica dei servizi, la mentalità assistenziale, le sacche di ideologismo. Una stantia narrativa vuole che la presidente del Consiglio sia brava ma circondata di collaboratori non all’altezza, forse la considerazione andrebbe allargata dalle decine, centinaia o migliaia di ruoli dirigenziali ai milioni di cittadini che devono fare un salto di mentalità. La crisi franco-tedesca è gravissima, ma può contare su due vere, grandi Nazioni.