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Giorgetti

C’erano una volta (e ci saranno di nuovo?) le Partecipazioni Statali

Potremmo assistere anche alla resurrezione del Ministero delle Partecipazioni Statali? La nota politica di Francesco Damato fra cronaca, storia e scenari

Di questo passo, purtroppo più all’indietro che in avanti, o per fortuna, secondo i gusti naturalmente, potremmo assistere anche alla resurrezione del Ministero delle Partecipazioni Statali. Che fu istituito alla fine del 1956 su spinta soprattutto di Giovanni Gronchi, un democristiano di sinistra eletto l’anno prima al Quirinale a sorpresa con un’operazione condotta da Giulio Andreotti, che pure non era di sinistra, e soppresso fra il 1993 e il 1994 dal governo più tecnico che politico di Carlo Azeglio Ciampi. Il quale fece chiudere materialmente quel dicastero da un tecnico indipendente come Paolo Baratta. Si era ormai all’epilogo della cosiddetta prima Repubblica, durante la quale per le partecipazioni statali era passata anche parte del finanziamento illegale della politica.

La vittoria elettorale e l’arrivo a Palazzo Chigi, nella primavera del 1994, di un imprenditore privato e di successo come Silvio Berlusconi sembrarono quasi conseguenti anche allo smontaggio delle partecipazioni statali avviato dall’ex governatore della Banca d’Italia con la decisione di chiudere appunto con Baratta il lungo elenco -una ventina- dei ministri succedutisi al vertice di quel dicastero. Che era stato per una quarantina d’anni fra i più ambiti dai partiti di maggioranza, soprattutto dalla  Democrazia Cristiana, perché lì si si decidevano le sorti delle aziende pubbliche e dei loro vertici.

Democristiano, oltre all’ispiratore Gronchi sul colle più alto di Roma, era stato il primo titolare del nuovo Ministero: Giuseppe Togni, toscano come l’allora presidente della Repubblica. Democristiano fu anche il secondo, Giorgio Bo, che vi stette all’inizio solo poco più di un anno, nel primo e unico governo di Adone Zoli, fra il maggio del 1957 e il luglio del 1958. Ma Bo vi sarebbe tornato nel luglio 1960, dopo un breve passaggio del socialdemocratico Edgardo Lami Starnuti e del democristiano Mario Ferrari Aggradi, per rimanervi ininterrottamente sino alla fine del 1968, in ben sette governi.

Giorgio Bo, della sinistra scudocrociata, divenne mitico nella sua inamovibilità. Disponeva del  Ministero e delle aziende controllate come di casa sua, anche se la stampa spesso lo rappresentava più come subalterno che come superiore di un altro personaggio mitico come l’allora presidente dell’Eni Enrico Mattei.

Longevi alla guida del Ministero delle Partecipazioni Statali furono anche i democristiani Antonio Bisaglia, dal 1974 al 1979, e Clelio Darida, dal 1983 al 1987, nonché il socialista Gianni De Michelis,  dal 1980 al 1983. Del quale i democristiani, abituati — come scrivevo — a farla da padroni da quelle parti, soffrirono la presenza forse più ancora di quella di Bettino Craxi a Palazzo Chigi fra l’estate del 1983 e la primavera del 1987.

Le permanenze più brevi al vertice di quel Ministero, non a caso interinali, per pochi mesi, per sostituire un defunto e poi un dimissionario, furono quelle di Giulio Andreotti. Che si guardò bene dall’aspirare alla titolarità vera e propria di quel dicastero nella sua lunga attività di governo conoscendo i rischi che potevano derivarne nei rapporti con gli alleati esterni o con le altre correnti del suo partito. Lui preferiva dirimere prudentemente le vertenze di potere, non crearle.

Politici, per quanto brevi, o relativamente brevi, furono i passaggi al Ministero delle Partecipazioni Statali di futuri segretari della Dc come Arnaldo Forlani e Flaminio Piccoli.

Degli alti rischi, oltre che della forte rimuneratività politica del Ministero delle Partecipazioni Statali per gli interessi che coinvolgevano le loro competenze di governo, si resero ben conto, in particolare, Antonio Bisaglia nel 1978 e Clelio Darida nel 1985.

Di Antonio Bisaglia, come del collega di partito Carlo Donat-Cattin allora alla testa del Ministero dell’Industria, reclamò la testa il Pci di Enrico Berlinguer nel passaggio dal primo al secondo  governo monocolore democristiano di cosiddetta solidarietà nazionale presieduto da Giulio Andreotti: un passaggio, con tanto di crisi, che fu anche l’ultimo gestito da Moro nei panni di presidente dello scudo crociato, prima di essere rapito dalle brigate rosse il 16 marzo 1978 in via Fani, a poca distanza da casa, e ucciso il 9 maggio. Si trattò allora di passare dall’astensione al vero e proprio voto di fiducia dei comunisti, concordando un regolare programma, e quindi la partecipazione piena alla maggioranza.

Di Bisaglia e di Donat-Cattin il Pci contestava le resistenze opposte all’interno della Dc, con le loro correnti, agli sviluppi delle intese parlamentari con i comunisti, che miravano con la formula del “compromesso storico” ad una partecipazione diretta al governo con i democristiani. A Bisaglia veniva contestato, oltre che l’azione interna di partito, l’uso del potere che faceva attraverso le aziende pubbliche sottoposte alla vigilanza politica del suo dicastero.

Le due teste erano state concesse dietro le quinte dall’allora segretario della Dc Benigno Zaccagnini e da Andreotti in nome, formalmente, di un rinnovamento della classe dirigente. I comunisti erano talmente sicuri di non vederne confermata la partecipazione al governo che il giornale ufficiale del partito , l’Unità, fu stampato nelle sue prime edizioni, mentre la crisi non era stata ancora formalmente  chiusa, con una lista di ministri che appunto li escludeva. Era l’elenco di nomi col quale Andreotti si era recato di sera all’’ultimo appuntamento con la delegazione della Dc, in una villa della Camilluccia, prima di portarla alla firma del capo dello Stato, al Quirinale. Non avevano messa nel conto, l’uno e l’altro, Zaccagini e Andreotti, la reazione di Moro. Che fu negativa, con questa motivazione più o meno letterale: “Non possiamo fare selezionare la nostra classe dirigente dagli altri”. E tanto Bisaglia quanto Donat-Cattin furono rimessi in lista e confermati.

La delusione e l’irritazione fra i comunisti fu tanto forte che la mattina del 16 marzo, mentre Moro usciva da casa per andare ad ascoltare il discorso programmatico di Andreotti alla Camera, il voto di fiducia del Pci non era più scontato. Andreotti ne era stato informato dal sottosegretario Franco Evangelisti, reduce da un incontro col vice capogruppo dello stesso Pci a Montecitorio Fernando Di Giulio.

La crisi praticamente stava per riaprirsi. A farla rientrare furono involontariamente proprio i brigatisi rossi, che avrebbero potuto trarne un vantaggio politico nella contestazione della cosiddetta borghesizzazione di Berlinguer. Il sequestro di Moro procurò un tale trauma politico che le riserve del Pci per la conferma dei due ministri democristiani contestati rientrarono a tal punto che la fiducia venne accordata al governo da entrambe le Camere nella stessa giornata.

Sette anni dopo, nel 1985, a esperienza ormai consumata della cosiddetta solidarietà nazionale, e a collaborazione ripresa fra i socialisti e i democristiani con Craxi a Palazzo Chigi, il ministro delle Partecipazioni  Statali Clelio Darida, fanfaniano di osservanza però forlaniana, si trovò a gestire la privatizzazione del settore alimentare pubblico -la famosa Sme- concordata negli accordi di governo. Ma  egli si trovò praticamente scavalcato dalla segreteria del suo partito, retta da Ciriaco De Mita, con una sostanziale intesa patrocinata fra l’allora presidente dell’Iri Romano Prodi e Carlo De Benedetti come acquirente delle aziende in vendita a un prezzo che Craxi trovò esageratamente a favore della controparte privata.

Il caso deflagrò in sede politica e poi anche giudiziaria. La lite si riversò nella Dc con la decisione di Darida di schierarsi praticamente con Craxi, anziché con De Mita, cogliendo l’occasione offertagli da una nuova proposta d’acquisto formulata da una cordata di imprenditori improvvisata da Silvio Berlusconi su sollecitazione, dietro le quinte ma neppure tanto,  del presidente del Consiglio.

Nacque o crebbe anche così l’antiberlusconismo di De Benedetti, recentemente affievolito dalle  aperture ad una nuova maggioranza non più a guida di Giuseppe Conte e comprensiva del partito di Berlusconi per il suo europeismo contrapposto al sovranismo delle altre componenti del centrodestra, ma anche di buona parte dei grillini al governo da due anni.

In questo quadro potrebbe diventare persino divertente, oltre che curioso o paradossale, un ritorno ai tempi del Ministero delle Partecipazioni Statali. Non vi pare? Curioso, questo ritorno, anche ai fini dei rapporti con l’Unione Europea, dove lo statalismo non gode, diciamo così, di grande popolarità o interesse e contribuisce a confondere ulteriormente l’immagine dell’Italia e della maggioranza giallorossa. Che si è appena ritrovata unita nelle votazioni parlamentari finalmente ripristinate alla vigilia dei vertici europei, senza la consueta e furbesca distinzione tra informazioni e comunicazioni del governo, solo al prezzo di accantonare ancora una volta il nodo su cui potrebbe scoppiare una crisi quando sarà inevitabile scegliere fra l’uso e il rifiuto del fondo europeo salva-Stati (il famoso Mes) per il potenziamento del servizio sanitario, messo a dura prova dall’epidemia virale.

Il partito di Renzi, decisivo al Senato, ha votato sia per il documento elusivo della maggioranza, tutto dedicato al negoziato in corso sul fondo per la ricostruzione o per la nuova generazione, sia per quello di Emma Bonino favorevole al Mes. Intanto si corre in autostrada, diciamo così, a proposito delle concessioni, e in altri settori per effetto anche della crisi da Covid, con la marcia o il carburante della nazionalizzazione. È come se qualcuno già stesse cercando  a Roma la sede del nuovo Ministero delle Partecipazioni Statali di una terza fantomatica Repubblica. Che starebbe francamente con l’Europa come il diavolo con l’acqua santa.

 

 

 

Articolo pubblicato sul Dubbio

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