Ho qualcosa da raccontarvi anche di personale, ma non troppo, sul più famoso, credo, dei centri sociali italiani. Che è chiamato Leoncavallo dal nome della strada di Milano dove esso acquistò fama occupando abusivamente un’area privata. Un centro appena tornato sulle prime pagine dei giornali un po’ per Matteo Salvini, che lo frequentò o sostenne nella prima gioventù e adesso invece chiede che i centri sociali vengano chiusi perché hanno prodotto troppe “zecche rosse”. Come quelle che a Bologna e a Milano hanno assaltato le forze dell’ordine. E un po’ per la condanna subita dal Ministero dell’Interno a risarcire di tre milioni e rotti di euro la proprietà dell’area occupata abusivamente da quel centro sociale a Milano negli ultimi dieci anni, e non sgomberata temendo disordini.
Arrivato alla direzione del Giorno nella primavera del 1989, quindi non dieci anni fa, scoprii l’esistenza del Centro sociale Leoncavallo leggendo le lettere di protesta che arrivavano quotidianamente da abitanti di quella strada perché disturbati anche di notte dalla musica assordante e da altre abitudini moleste degli occupanti abusivi di ciò che rimaneva di qualcosa di mezzo fra un capannone e un edificio. Ne parlai subito col capocronista, che mi consigliò di lasciar perdere per i rischi che avrei potuto correre. E che infatti, occupandomene in un po’ di articoli, provai poi con telefonate minatorie a casa. A seguito delle quali la magistratura negò le intercettazioni chieste dalla polizia, che nel frattempo mi aveva assegnato una scorta. “Il garofano verrà reciso”, annunciavano i malintenzionati a mia moglie disapprovando anche le mie simpatie personali e politiche per Bettino Craxi, che del garofano aveva fatto il simbolo del Psi.
Oltre che di Craxi, ero amico del cognato e sindaco di Milano Paolo Pillitteri, al quale chiesi perché mai nella “Milano da bere” propiziata giustamente dai socialisti dopo gli spaventosi anni di piombo del terrorismo si permettesse un’isola per niente da bere in una strada pur intitolata al celebre compositore italiano -Ruggero Leoncavallo- dei “Pagliacci”, e non solo di Manon Lescaut, della Bohème, di Zazà e altro. Pillitteri dopo qualche mese tentò soprattutto con i vigili urbani – a Ferragosto, puntando sulla sorpresa – lo sgombero. Al quale gli occupanti opposero una resistenza durissima, che sorprese e impensierì non so se più il Questore o il Prefetto. I quali poi, ciascuno nelle proprie competenze, permisero che l’occupazione praticamente proseguisse. Anzi, si trasferisse da via Leoncavallo altrove, prima in via Salomone e poi in via Watteau, in una soluzione di continuità fra la prima e le successive Repubbliche.
Almeno per gli ultimi dieci anni vedo che il Ministero dell’Interno, a causa delle complicate vicende giudiziarie che hanno contrassegnato questa storia, è stato condannato a risarcire i danni alla proprietà. Quelli alla collettività altrettanto incolpevole sono andati in cavalleria.