Ci si può anche divertire, per carità, a leggere le cronache, peraltro più di colore che di politica vera e propria, dell’incontro svoltosi fra i pezzi da novanta, ottanta, settanta e via scendendo del Movimento 5 Stelle in un agriturismo della periferia romana per chiarirsi le idee dopo la batosta presa nelle elezioni regionali del 20 e 21 settembre.
Non si sono voluti aspettare neppure i ballottaggi comunali del 4 ottobre su cui tanto ha scommesso Luigi Di Maio. Che ormai, chiuso come peggio francamente non si poteva per la sua parte politica il turno regionale, tra alleanze inutilmente tentate o fallite col Pd, come quella in Liguria, per esempio, spera ancora che si potrà fare meglio nelle elezioni comunali dell’anno prossimo.
Ci si potrebbe anche divertire, dicevo, leggendo dei ministri, vice ministri, sottosegretari, capigruppo e parlamentari accorsi a mescolarsi con i “cani sciolti” della campagna romana segnalati con tanto di cartello. O condividendo il sarcasmo dei cronisti impegnati a confrontare i pullman affittati dai grillini dopo le elezioni del 2018, per prepararsi in un altro agriturismo alla legislatura rivelatasi così generosa di seggi per loro, e le auto di questo autunno eufemisticamente chiamate “di servizio” da qualcuno abituato invece a scambiarle, sino a quando ad usarle erano altri, per privilegi dipinti di blu: un colore rimosso dai dignitari pentastellati facendo acquistare dalle loro amministrazioni macchine rigorosamente e anonimamente grigie.
Avevano più coraggio, o meno ipocrisia, i socialisti di Pietro Nenni che, tornati al governo con la Dc in groppa al centrosinistra, prima col trattino e poi senza, erano almeno orgogliosi della macchine blu che li portavano in giro. Ci avevano sperato già nel 1948, pensando di vincere le elezioni storiche del 18 aprile e sognando con l’alleato Palmiro Togliatti di cacciare Alcide De Gasperi a “calci in culo” dal Viminale, che la Presidenza del Consiglio divideva allora come sede col Ministero dell’Interno.
Rispetto al “colore” della periferia romana del “conclave” segreto dei grillini, ci sarebbe da rimpiangere il castello toscano di Gargonza, dove la sinistra più o meno raccolta sotto l’Ulivo di Romano Prodi soleva incontrarsi per difendersi da quell’intruso che era considerato Silvio Berlusconi. Che nel 1994 aveva guastato la festa annunciata da Achille Occhetto alla testa della “gioiosa macchina da guerra” per chiudere coerentemente con le premesse e le attese delle Botteghe Oscure la stagione giudiziaria di “Mani pulite”.
Sconfitta a tal punto dal Cavaliere da essere addirittura tentata di inseguirlo sulla strada dei movimenti improvvisati e della personalizzazione della politica, la sinistra fu richiamata all’ordine proprio a Gorgonza nel 1997 da Massimo D’Alema, succeduto ad Achille Occhetto alla guida del Pds-ex Pci e spesosi per l’incoronazione di Romano Prodi a leader dell’Ulivo e candidato a Palazzo Chigi. Dove tuttavia erano bastati pochi mesi, dopo la vittoria elettorale del 1996, a far capire a “Baffino” che il professore di Bologna si concedeva troppa autonomia e troppe ambizioni, col suo vice presidente del Consiglio Walter Veltroni, per un’alleanza composita come quella dell’Ulivo.
Fu in quell’occasione, a Gorgonza, che D’Alema portò avanti la protesta già levatasi contro i “cacicchi”, come lui chiamava i sindaci e oggi forse chiamerebbe i governatori regionali, ed avvertì -peraltro inutilmente- che “la politica deve continuare ad essere fatta dai partiti, non attraverso movimenti tardosessantotteschi”. Non immaginava, poveretto, quanto avrebbe anticipato i tempi della paura, a dir poco, avvertita in questi tempi per il protagonismo, il peso politico e quant’altro di un movimento come quello grillino. Che ora più si dibatte nella crisi d’identità subentrata all’emorragia elettorale in corso dalla primavera del 2019 e più vi si sprofonda. Più insegue i suoi “Stati Generali”, come vengono troppo enfaticamente chiamati quelli che una volta erano i congressi, e più essi appaiono “generici” addirittura al direttore in persona del giornale meglio disposto verso i grillini. Che naturalmente è Il Fatto Quotidiano.
Più i pentastellati gridano contro la casta e più vi diventano o vi partecipano praticandone solo i vizi, e mai le virtù che pure le caste riescono spesso ad avere. E li praticano con la goffaggine naturalmente degli inesperti o degli improvvisatori, come dimostrano i cinque centimetri di acqua -dico cinque- in cui sono riusciti ad affogare o annaspare con la vicenda dello stipendio del “loro” presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Di cui lasciatemi nutrire il sospetto che si sia pentito del giorno in cui conquistò l’interesse, la fiducia e non so cos’altro del movimento 5 Stelle, diventandone nel 2018 il candidato a ministro del Lavoro.
Per tornare a Gorgonza e al suo castello, malamemte imitato dai grillini con le loro incuriosi negli agriturismo, confortevoli per quel “ritorno alla natura” bucolicamente evocato dal reggente Vito Crimi, voglio ricordare che cominciò lì, nella storia della cosiddetta seconda Repubblica, anche la pratica delle stagioni brevi ed effimere della sinistra, come potrebbe rivelarsi breve nella campagna romana la stagione grillina.
Fu a Gorgonza nel 2000 che, bruciati in quattro anni il primo governo Prodi e ben due governi di D’Alema, succedutogli senza passare per nuove elezioni, ma con una manovra di palazzo favorita da un partitino improvvisato dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, la sinistra si divise fra Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, e Francesco Rutelli per la camdidatura a Palazzo Chigi nelle elezioni ordinarie dell’anno dopo. Prevalse la visione dell’Italia “a rotelle”, come si lasciò scappare il solitamente contenuto “dottor Sottile” dei tempi di Bettino Craxi. E le elezioni furono vinte da Berlusconi, riuscito poi a governare per l’’intera legislatura.
A rotelle stavolta, in questi tempi di epidemia virale, ci sono i banchi di scuola della ministra grillina della Pubblica Istruzione Lucia Azzolina, corsa dai suoi nell’agriturismo della periferia romana a lamentarsi della guerra intestina che le farebbero quelli del Pd. Ma a rotelle, francamente, sono più generalmente ridotti il movimento 5Stelle e una legislatura che sembra costretta dalla rassegnazione, più che dalla paura di chissà quale Annibale alle porte, a proseguire comunque sino al suo epilogo ordinario, costi quel che costi. Spero, francamente, il meno possibile all’Italia.