Dalla “radicalità forte” – ricordate? – raccomandata ad Elly Schlein da Carlo De Benedetti, non bastando quella senza aggettivo di un suo libro recente, siamo appena passati alla “radicalità dolce”, o “soft”, consigliata da Romano Prodi. “Un ossimoro”, hanno commentato alcuni giornali, che pure avevano risparmiato questa definizione alla radicalità “forte” dell’ingegnere, considerando evidentemente la forza più congeniale, più naturale, più complementare alla radicalità che già di suo comporta un certo vigore. La dolcezza in effetti si coniuga più difficilmente con la voglia radicale di fare, o anche di non fare qualcosa.
È radicale, per esempio, la voglia del guardasigilli Carlo Nordio, questa volta compatibile con le “priorità” o, più in generale, con il programma concordato fra i partiti della maggioranza di governo, e condiviso anche dal cosiddetto terzo polo, di separare le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici. È altrettanto radicale la contestazione dell’associazione nazionale dei magistrati, o sindacato delle toghe, che vede in una simile riforma la voglia di sottomettere i pubblici ministeri al governo di turno privandoli dell’indipendenza, autonomia d quant’altro garantita a tutti i magistrati.
LA RADICALITÀ DI SCHLEIN E LA CORRENTE DI BONACCINI
Di che tipo di radicalità abbia voglia la Schlein, a prescindere dal tipo e dal colore di abito che sceglie di volta in volta di indossare, con o senza la consulenza del caso, non saprei bene. E mi pare che non lo abbia capito neppure Prodi se, al termine del suo intervento alla sostanziale nascita della corrente allargata del presidente del Pd Stefano Bonaccini, chiamata “Energia popolare”, si è infastidito alle richieste dei giornalisti di esprimere un giudizio sulla segreteria attuale del Nazareno. Ad occhio e croce, data l’indifferenza opposta a tutti gli abbandoni del Pd dopo la sua elezione, che fossero di provenienti dalla sinistra democristiana o dal Pci, direi che la radicalità della Schlein non sia proprio dolce come consigliata da Prodi. Che al posto suo avrebbe probabilmente trattenuti tutti i dissidenti, comprendendone disagi e quant’altro.
Un sola volta il professore emiliano, con i suoi due governi di cosiddetto centrosinistra formati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, nel 1996 e nel 2006, mostrò una certa voglia di punire chi gli aveva messo i bastoni fra le ruote, o disseminato la strada di chiodi. Fu nel 1998 reclamando il diritto di ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere e di andare alle elezioni, dalle quali probabilmente sarebbe uscito con le ossa rotte Fausto Bertinotti, che gli aveva bucato le gomme fermando la corsa di governo alla quale il professore era stato autorizzato dagli elettori, prima ancora che dal presidente della Repubblica.
Ma Massimo D’Alema, l’azionista di maggioranza di quello che allora era l’Ulivo, spalleggiato al Quirinale da Oscar Luigi Scalfaro, non glielo permise preferendo succedergli subito e direttamente a Palazzo Chigi con un cambio di maggioranza. Nella quale il “sinistro” Bertinotti fu sostituito dal “destro” Francesco Cossiga. In compenso – va ricordato con onestà – D’Alema si prodigò davvero per la nomina compensativa di Prodi a presidente della Commissione europea, a Bruxelles. Da dove il professore emiliano sarebbe tornato per un altro sfortunato tentativo di governare in Italia per un’intera legislatura, interrotto questa volta, al di là delle dimissioni dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, dall’ex vice di Prodi alla prima presidenza del Consiglio, Walter Veltroni. Il quale aveva appena fondato e assunto la guida del Pd con la famosa “vocazione maggioritaria”. Che era un’aspirazione propedeutica ad una concezione di subalternità degli alleati al partito maggiore, con o senza apparentati. Fra i quali Veltroni ebbe, purtroppo per lui, l’infelice idea di preferire ai radicali ancora di Marco Pannella i giustizialisti, a dir poco, di Antonio Di Pietro.
L’ACCOGLIENZA DI BONACCINI A PRODI
Alla luce di questa storia molto, forse troppo sintetica dell’avventura politica di Prodi – con entrambi i suoi governi di cosiddetto centrosinistra caduti anzitempo, e con la solidarietà umana che merita il suo dolore per la perdita, prematura anch’essa, dell’amatissima moglie Flavia – mi è francamente apparso eccessivo il clima quasi eroico nel quale egli è stato accolto a Cesena dagli amici e compagni di Bonaccini. E ascoltato a distanza da una Schlein non trattenutasi abbastanza per ascoltarlo, per quanto gli debba il proprio decollo politico. Che risale al 2013, quando lei da sconosciuta, o quasi, predicò l’occupazione delle sezioni e sedi del partito per protesta contro i “traditori” che avevano appena impedito in Parlamento l’elezione di Prodi al Quirinale.
È vero, come si è detto appunto a Cesena e dintorni, che Prodi è l’ultimo ad avere vinto a sinistra le elezioni, sconfiggendo due volte Silvio Berlusconi all’esordio del cosiddetto bipolarismo. Ma, come ho già ricordato, senza riuscire poi a governare con le carovane allestite contro l’allora Cavaliere, che almeno una legislatura riuscì a governarla tutta da Palazzo Chigi col centrodestra, mancando le altre due occasioni: la prima a causa di Bossi, praticamente sfilatogli dalla maggioranza dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, sempre lui, e la seconda per l’intreccio ancora misterioso, almeno in parte, fra una crisi finanziaria internazionale, la rottura interna al centrodestra con Gianfranco Fini e le spalle rivoltegli da Bruxelles e tradottesi in un sostanziale commissariamento della politica italiana gestito a Palazzo Chigi da Mario Monti.