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studenti

In lode del bilinguismo

Ci sono voluti cinquant’anni per capire che il bilinguismo fin da piccoli non è poi così male, e che le classi separate sono un obbrobrio umano, prima ancora che didattico. Il taccuino di Guiglia.

Ci sono voluti cinquant’anni per capire che il bilinguismo fin da piccoli non è poi così male, e che le classi separate sono un obbrobrio umano, prima ancora che didattico. Cinquant’anni per leggere che anche importanti personalità politiche e istituzionali della comunità di lingua tedesca finalmente condividono il punto di vista espresso dall’intero ceto politico e scolastico di lingua italiana contro il separatismo etnico. Come si dice, meglio tardi che mai.

Ma questa testimonianza personale è rivolta a quanti, purtroppo ancora tanti, hanno paura del bilinguismo precoce. Che di tutti i bilinguismi è, al contrario, l’unico a non poter spaventare nessuno.

Proviamo per un momento a sognare lontano, uscendo dall’Alto Adige.

La piccola storia che segue, si svolge “alla fine del mondo”, come Papa Francesco evocò, con tipica simpatia argentina, il suo provenire dal Sud America nel giorno della fumata bianca a San Pietro, il 13 marzo 2013.

Ebbene, persino nel continente che, con la grande eccezione del Brasile, dove si parla portoghese, tutti i Paesi che lo compongono si esprimono in una sola lingua, che è lo spagnolo, la facoltà del bilinguismo è di casa da decenni.

Come tanti bambini dell’epoca, anni Sessanta, io ero figlio di padre italiano, di Mantova, e mamma uruguaiana di Montevideo, la capitale del Paese dove sono nato e cresciuto fino ai 13 anni.

Quando si pose il quesito familiare di dove iscrivere me e mio fratello Alessandro, papà non ebbe dubbi: la Scuola Italiana, che è molto frequentata ancora oggi (rappresenta una tappa obbligata e orgogliosa per i presidenti della Repubblica italiana in visita in Uruguay).

Ma mio padre fu bloccato da mia madre, che come tutte le madri godeva di quell’intuitivo buonsenso di cui i papà sono spesso privi: siccome i nostri figli l’italiano lo stanno già imparando con te, che con loro parli sempre e solo in italiano – gli disse con fare ultimativo -, andranno entrambi al St. Catherine’s School. E così fu.

Era una scuola privata e bilingue gestita da insegnanti inglesi e scozzesi. Che ricordo meraviglioso della terribile Mrs. Findlay, preside che girava con i calzini corti e bianchi anche in pieno inverno, e che non ha mai proferito una parola in spagnolo, la lingua dell’Uruguay.

Ci siamo così trovati a studiare al mattino tutte le materie in inglese, e nel pomeriggio tutte le materie in spagnolo (con incursioni di francese). Per l’intero ciclo di elementari e medie. Quando leggo delle esemplari scuole ladine in Alto Adige, penso d’istinto al mio St. Catherine’s e invidio – ormai da adulto e padre a mia volta -, la fortuna di quei bambini e ragazzi che hanno la possibilità di frequentarle, grazie a genitori previdenti e con insegnanti aperti all’universo.

Perché bilingui si diventa senza accorgersene, senza che la circostanza pesi, senza che la madrelingua sia oppressa né compromessa. Solo una pedagogia astratta e tremebonda, e peraltro ampiamente minoritaria, può ancora propagandare terrore all’idea che un bimbo di madrelingua tedesca disimpari la sua lingua, se fin da piccolo gli parlano e lo fanno giocare anche in italiano. E viceversa: l’Alto Adige è pieno di italiani che fin dalla tenera età hanno avuto la possibilità di apprendere il tedesco. E non per questo si sentono meno italiani. All’opposto: sono italiani più ricchi, più formati, più rapidi nell’imparare con leggerezza e curiosità pure altre lingue. Come è successo anche a me.

Del St. Catherine’s School, che purtroppo non c’è più, sono rimasti persino i vezzi. Quando mi reincontro con i compagni di classe, nessuno mi chiama “Federico”, ma “Freddy” perché, appena si varcava il portone della scuola, anche i nomi acquistavano il sapore e la pronuncia della lingua di Shakespeare. Freddy, Peter (da Pedro), John (da Juan) Sandy e così via siamo rimasti per sempre.

In omaggio a Mrs. Findlay, la terribile preside dai calzini bianchi, che ci ha fatti immergere nell’inglese nella terra che parla spagnolo e con un padre italiano.

www.federicoguiglia.com

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige

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