Da quando i sondaggi, per quello che valgono, lo danno in testa nella corsa per le presidenziali Usa, Joe Biden galleggia.
Mancano cinque mesi al voto americano e Biden, dopo la vittoria alle primarie, gira più su Internet che in America. Cosa comprensibile nel pieno dell’emergenza coronavirus, un po’ meno se il film della campagna elettorale democratica dovesse continuare a essere questo.
Perché? Al momento le parole d’ordine su cui si sta concentrando Biden sono da una parte il Covid, dall’altra la vicenda Floyd, due temi cari alla sinistra Usa. Una sinistra che premeva per un lockdown più lungo, che accusa Trump di avere sulla coscienza tanti morti e di fomentare il razzismo contro i neri americani con i suoi tweet incendiari. Così Biden galleggia tra ciò che si dice di lui e ciò che oggi è il suo partito.
L’ex vice di Obama è sempre stato raccontato come il volto rassicurante dell’ala centristra dei Democratici, lo spensierato Uncle Joe che riesce a fermare in extremis la marcia di Bernie Sanders alle primarie dell’Asinello.
Eppure Biden adesso sembra slittare verso la sinistra. Così galleggia, non si espone troppo, cerca forse di capitalizzare il consenso degli americani spaventati dal Covid e dalla vicenda Floyd. Il caso Floyd, bisogna ammettere, è un aspetto bizzarro rispetto alla vita politica di Biden.
Il candidato democratico è stato accusato alle primarie di aver firmato negli anni Settanta un emendamento per ripristinare i fondi federali alle scuole che si rifiutavano di applicare la desegregazione razziale. Biden è anche stato indicato insieme a Bill Clinton come l’autore di una legislazione non proprio morbida in materia di sicurezza. Ma appunto quello era il partito in cui la difesa della libertà coincideva con più sicurezza. Un partito diverso da adesso.
Democratici e Repubblicani per molto tempo non hanno mai tradito due pilastri della storia politica americana: il patriottismo e la convinzione che il capitalismo, la globalizzazione e il libero mercato non siano pericolosi nemici da abbattere. Con Obama c’è stato uno slittamento dei Democratici verso la sinistra. Se Sanders avesse vinto le primarie, quei pilastri sarebbero crollati del tutto come un castello di carte.
Ma dopo la sconfitta di Sanders, non è detto che l’inclinazione dei Democrats sia cambiata: prendersela con la polizia tagliandole i fondi, tassare la ricchezza, completare la ritirata globale degli Usa dal resto del mondo, non in nome dell’America First bensì del pacifismo, del terzomondismo e del politically correct.
L’establishment democratico al Congresso, del resto, accecato dall’odio verso Trump, rema in questa direzione, tra sciarpette e inchini da salotto antirazzista come quelli che ci ha riservato giorni fa la speaker della Camera Nancy Pelosi. Ci sono le 4 suffragette di The Squad: la congressista Rashida Tlaib che twitta chiedendo di tagliare i fondi alla polizia, Alexandria Ocasio-Cortez che Biden ha messo nella sua task force sul clima, Ayanna Pressley che sfila nelle marce dell’antisemita Farrakhan e Ilhan Omar che chiama Israele “il demonio”. Io credo che Biden sbaglierebbe a seguire una strada diversa da quella che lo ha portato a battere Sanders. Si farà abbindolare dai radicali del suo partito? Dagli ‘antirazzisti’ Antifa e di Black Lives Matter che promuovono una nuova paradossale auto-segregazione nella società americana?
La risposta l’avremo quando sarà chiaro il ticket democratico alla Casa Bianca. Da Kamala Harris che alle primarie accusava Biden di essere un razzista truffaldino a Michelle Obama, una donna nera e dell’entourage di Barack (l’ex presidente tornato a tempo pieno in campagna elettorale) sembra la scelta in pole per il possibile futuro vice di Biden. Una vice donna servirebbe a Biden per farsi perdonare qualche imbarazzante accusa di sessismo che gli è stata rivolta, conquistando il voto femminile e delle minoranze, a cominciare dagli afroamericani infuriati con Trump. Viene da chiedersi se in questo caso il 78enne Biden resterà in sella per tutto il mandato: gli Obama non giocano per fare i secondi.
Certo, le elezioni presidenziali Usa si decideranno molto su come andrà l’economia a settembre. E certo, dopo Trump non si capisce neppure cosa sia diventato oggi il partito repubblicano. Una buona prova del nove per capire dove va Biden è la relazione speciale tra Usa e Israele. Perché di Trump tutto si può dire, che è stato un presidente che ha allontanato gli Usa dalla debole Europa, che è stato contraddittorio ed eccessivo, ma è anche stato l’inquilino della Casa Bianca che ha riconosciuto Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. Che farà Biden? Taglierà i fondi di Washington a Gerusalemme come minaccia almeno dagli anni Ottanta, per fare pressing sull’eterno piano di pace ed ingraziarsi i palestinesi?
Trump non ha venduto l’anima al diavolo. Non ha fatto l’inchino ai sauditi come fece Obama. Non si è arreso all’idea di un Iran nucleare. Non è stato tenero con la Cina che invece è da sempre ai primi posti dell’agenda Biden. Trump non ha chiesto più tasse a Wall Street come vorrebbero Biden e Kamala Harris. Trump è stato un presidente odiato, almeno quanto Obama veniva osannato. Ma Biden non è Obama. Non ha il fascino e il carisma del presidente che faceva ‘ciuf’ giocando nei campetti di basket. L’abbraccio della sinistra per lui sarebbe mortale, come è successo in UK. Dall’antisemitismo travestito da antisionismo fino alla nazionalizzazione dell’economia, abbiamo visto il disastro combinato dai laburisti guidati da Corbyn.
Ora Keir Starmer vorrebbe invertire la rotta nel mondo laburista inglese, ma il danno fatto da Corbyn rischia di essere irreparabile. Se Biden è davvero un pupazzo alla corte degli Obama e della sinistra americana più radicale, tutte le belle convinzioni sul candidato cristiano democratico, esperto e competente rischiano di svanire in un baleno.
Del resto non si tratta solo di vincere o di perdere le elezioni, bensì di abdicare a una visione antimercato, antipatriottica e spesso intollerante. Biden galleggia ma rischia di sprofondare.