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Berlinguer, Craxi e Moro: il trittico drammatico della Repubblica

I Graffi di Damato   Continuo a considerare Enrico Berlinguer -soprattutto per l’emozione con la quale se n’è tornato a scrivere e a parlare nel centenario della nascita, con tutte le luci accese sulle sue qualità e spente sui suoi difetti o errori- un protagonista sfortunato e tragico, o tragicamente sfortunato, come preferite, della storia…

 

Continuo a considerare Enrico Berlinguer -soprattutto per l’emozione con la quale se n’è tornato a scrivere e a parlare nel centenario della nascita, con tutte le luci accese sulle sue qualità e spente sui suoi difetti o errori- un protagonista sfortunato e tragico, o tragicamente sfortunato, come preferite, della storia dell’Italia repubblicana. E lo è stato -lo preciso subito per chiarire quanto poco malanimo ci sia nella mia valutazione- in compagnia di altri due leader che ho personalmente conosciuto, frequentato e apprezzato di più, di cultura e orientamento politico opposti o diversi da lui: Aldo Moro e Bettino Craxi. Del quale ultimo divenni anche amico e qualche volta persino confidente.

Con Berlinguer invece il massimo che ci siamo scambiati è stato un saluto in qualche tribuna politica televisiva, compresa quella nella quale mi diede il privilegio professionale di usare una mia domanda per uno dei suoi strappi politici: l’ultimo e davvero conclusivo, dopo quelli sulla Nato, da cui si sentiva protetto, e sulla libertà indivisibile. Mi riferisco alla volta in cui commentò il regime militare praticamente imposto dai sovietici alla Polonia parlando di “esaurimento ormai della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” comunista.

Berlinguer, Moro e Craxi costituiscono il trittico drammatico della Repubblica italiana, ciascuno morto a suo modo della propria passione politica e della centralità assunta nel sistema del loro comune Paese.

Berlinguer rimase vittima dell’esasperazione alla quale, volente o nolente, aveva portato la lotta fra le due componenti storiche della sinistra italiana: la socialista, più anziana, e la comunista, più organizzata e disciplinata.

Moro rimase vittima di quel merletto unitario che aveva saputo realizzare nel 1976 con la cosiddetta maggioranza di solidarietà nazionale, estesa dalla Dc al Pci, per il cui salvataggio, poi neppure riuscito, entrambi i partiti lo condannarono sostanzialmente a morte con la cosiddetta linea della fermezza, peraltro mal gestita, una volta che lui fu sequestrato dalle brigate rosse fra il sangue della scorta trucidata il 16 marzo 1978 a poca distanza da casa sua.

Craxi morì assassinato a suo modo, nel suo rifugio tunisino, da quel trattamento giudiziario e mediatico riservatogli in Italia con “una durezza senza uguali”, riconosciuta dopo dieci anni dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per l’errore sicuramente compiuto -per carità, ma non certo da solo- accettando di ereditare e praticare una pratica illegale di finanziamento dei partiti. Che fu il frutto della ipocrisia con la quale la politica è purtroppo abituata ad affrontare e risolvere i problemi del suo sostentamento.

Craxi, di solito così diffidente, si fidò una volta tanto dei suoi avversari scommettendo praticamente sull’omertà che aveva unito i partiti in quella pratica: lui, solo o più di tutti, che alla guida del governo, dopo Alcide De Gasperi, senza essere stato peraltro mai ministro, aveva saputo starci meglio di ogni altro. Ah, che rabbia e ingiustizia al tempo stesso.

Sulle circostanze drammatiche della fine di Berlinguer, dopo un comizio a Padova nel 1984 in cui si era riproposto il conflitto tra una sinistra modernizzatrice rappresentata da Craxi a Palazzo Chigi e una sinistra autoreferenziale sino al conservatorismo rappresentata dal Pci, schierato persino contro un modesto sacrificio antinflazionistico nella scala mobile dei salari, non voglio proporvi nulla del mio modestissimo pensiero.

Voglio riproporvi solo ciò che scrisse nel 2003 l’insospettabile Piero Fassino, l’ultimo segretario dei democratici di sinistra post-comunisti, nella sua autobiografia -Per passione, pure lui- pubblicata da Rizzoli: “Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita. La partita dura ormai da molte ore. Sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che con la prossima mossa l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”. Più onestamente e sofferentemente Fassino non poteva scrivere e riconoscere.

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