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Berlino

Vi racconto la piccola Grecia in Ungheria

Beloyannisz, in Ungheria, non è un villaggio come tutti gli altri. Il racconto di Alessandro Napoli.

1946-1949: in Grecia c’è la guerra civile. I britannici vogliono mantenere la monarchia. I partigiani, che avevano sostenuto il massimo dello sforzo nella guerra di liberazione dai nazisti e dai fascisti, hanno già proclamato la repubblica nelle zone che controllano. Sono bene organizzati, con l’armata di liberazione (Elas) che però ha mezzi straordinariamente inferiori a quelli degli avversari.

L’Elas controlla le zone montagnose, soprattutto l’Epiro e parte del Peloponneso. I sovietici non mandano aiuti: dalla conferenza di Teheran in poi, l’accordo fra sovietici e alleati era che la Grecia sarebbe entrata nella sfera di influenza anglo-americana. Gli aiuti arrivano solo dalla Jugoslavia.

In questi anni l’Elas mette al sicuro più di ventimila bambini dei villaggi delle zone di guerra nei paesi dell’Europa Orientale, soprattutto in Ungheria, dove invece la situazione è capovolta rispetto a quella greca: il partito comunista, uscito minoritario dalle elezioni che si susseguono, prende il potere ed espelle gli alleati del partito dei piccoli proprietari. Quando le forze monarchiche prendono il sopravvento, a lasciare la Grecia non sono solo bambini, ma anche decine di migliaia di adulti.

Il 25 marzo in Grecia è il giorno di inizio della rivolta contro gli Ottomani (1821). Per i greci è festa nazionale. Il 25 marzo del 2002 guido per stradine secondarie sulla sponda occidentale del Danubio, in Ungheria, a solo un’ottantina di chilometri a sud di Budapest. Ma è un altro mondo rispetto a quello della capitale e dei suoi sobborghi. Sto andando a Beloyannisz (Μπελογιαννης in greco), un villaggio che non è come gli altri qui intorno.

Lo sottolinea il cartello con scritte bianche su fondo verde, che indica che ci siamo arrivati: è scritto in ungherese e in greco. È la prima volta che ci vengo. Sono eccitato, dopo tanti anni passerò un pomeriggio e una serata in mezzo ai greci, parlando solo greco. Sulla piazza, che poi è uno spiazzo, noto la macchina ammiraglia dell’Ambasciata con la bandiera ellenica sul parafango e quella di un mio amico, piccolo imprenditore e membro della giunta esecutiva della Camera di Commercio Grecia-Ungheria. Per il resto le solite Suzuki swift, le immortali Trabant, un paio di Lada e due trattori. È il mio amico che mi ha invitato qui. Sapeva di farmi cosa gradita.

Mi guardo intorno. Il villaggio non ha proprio nulla di ellenico. D’accordo, gli alberi e tutta la vegetazione non possono che essere quelli dell’Europa Centrale. Quindi niente olivi e niente odore di macchia mediterranea. Niente montagne, ma pianura e odore di fiume. Le case sono baracche in muratura a un piano e non sono bianche. C’è una casa comunale, una scuola e una biblioteca. Il tutto ricorda un kolkhoz sovietico, non un villaggio greco.

La manifestazione si tiene nella scuola, uno degli edifici prominenti del villaggio. Luci al neon, pavimenti in linoleum, un piccolo buffet con bevande analcoliche da hard discount. Discorso dell’ambasciatore, discorso del sindaco. Sul palco una compagnia di attori e danzatori giovanissimi, vestiti come i greci dei primi decenni del XIX secolo. La pièce è patriottica e ingenua (i turchi sono tutti cattivi e malfidi, i greci tutti generosi e buoni). I ragazzi recitano e cantano in greco. Esco e giro per il villaggio. Il tutto avrà una cinquantina di anni di vita. Ogni casa è uguale all’altra.

Ritorno nella scuola e acchiappo uno degli abitanti-spettatori, sulla settantina. “Sono arrivato in questo posto nel 1950”, dice Jannis. È l’inizio di un lungo racconto: “Il governo ci diede la terra e ci disse come avremmo dovuto costruire le case. Doveva essere un villaggio moderno, un villaggio socialista, dovevamo essere un esempio. Qui è pieno di controrivoluzionari, ci dicevano. Giuro che non eravamo tutti comunisti, i bambini poi … Comunque qui ora non siamo più tutti greci. C’è chi è tornato in Grecia, da quando il governo ha dichiarato la rappacificazione e permesso il ritorno, da quando ha dichiarato che quella era stata una guerra civile e non la guerra contro i banditi. C’è chi invece è andato a Budapest. Mezzo villaggio si è svuotato di greci e riempito di ungheresi”.

Mi accendo la solita sigaretta e addento una tartina. L’aranciata da hard discount no, non la bevo, non la reggo. È come se mi avesse letto nell’anima, Jannis. “Ελατε, ελατε μαζι μου!”, venite, venite con me, mi fa. E mi porta a casa sua. Una baracca in muratura come le altre, ma con tanti gerani. Ingressino con appendiabiti a muro. Mi fa sedere a un  tavolo da pranzo in legno di ciliegio in un ambiente dove spicca un bar-credenza anch’esso in legno di ciliegio con gli sportelli a vetro e esibizione di paccottiglia varia, e mi stringe la mano. Non c’è niente da fare, noi mediterranei, ovunque andiamo a vivere non perdiamo mai l’istinto che ci porta al contatto fisico con gli altri esseri umani.

“Vi dirò, anzi ti dirò, che non abbiamo ouzo, però abbiamo una bella palinka di pere. Non te la prendere”, tiene a dirmi, “il fatto è che non so per quanto tempo resteremo greci. Li hai visti i ragazzi, parlano e cantano in greco, ma quando sono andati a cambiarsi, a togliersi il costume di scena, sono sicuro che fra loro parlavano in ungherese, o al massimo mischiavano una parola in greco con non meno di cinque in ungherese. Abbiamo le nostre istituzioni, siamo una minoranza etnica ufficialmente riconosciuta, ma i greci di Budapest sono ricchi, noi invece qui siamo poveri e per questo ci stiamo assimilando”.

Primo sorso di palinka, e poi secondo. Bicchierini svuotati. Metto la mano in tasca, istinto del fumatore che cerca il pacchetto. Jannis capisce subito e mi anticipa. “Sei a casa di un greco, fuma quanto vuoi, però una sigaretta me la dai? Sai, si vede che non sei comunista, ma non c’è bisogno di essere comunisti per dividersi le sigarette”. E scoppia a ridere.

Restiamo a parlare, bevicchiare e fumare per almeno un’ora nel suo tinello. Anzi, è lui che parla, raccontandomi la storia della sua famiglia; io mi limito a ascoltare e ad annuire. Parla ancora dei ragazzi del villaggio, e poi passa a raccontarmi una storia di un cugino che vive in un paese vicino Tripolis e che è sempre rimasto in Grecia. Ora è prematuramente vedovo e cerca moglie con annessi consigli e suggerimenti. “La vuole giovane, di origine greca ma di aspetto ungherese”, aggiunge, “insomma non mora con i fianchi larghi ma castana con i fianchi stretti e le spalle larghe”. Sorrido e penso al film con Sordi – Bello. Giovane, Emigrato in Australia … – solo che in questo caso l’intermediario non è un prete ma un parente.

Alla fine Jannis apre la finestra del suo tinello e a me, forse per via dei bicchierini di palinka, viene un colpo di sonno. Mi stendo sul divanetto ripensando a tutto quanto mi ha raccontato, scivolando nel dormiveglia. Ma dalla finestra entra una brezza che odora di fiume, non di garriga mediterranea: siamo in Ungheria, non in Grecia.

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