Con un ossimoro non nuovo alla politica avverto l’assordante silenzio, almeno sino al momento in cui scrivo, di Giuseppe Conte di fronte all’ultimo scontro avuto dalla premier con la magistratura. Alla quale Giorgia Meloni ha contestato, con un paradosso solo apparente, l’archiviazione offertale, diciamo così, nel procedimento che continua invece contro due ministri, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e il sottosegretario di fiducia a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano per la vicenda del generale libico Almasri. Che, arrestato in Italia sotto l’accusa della Corte internazionale penale dell’Aja di crimini contro l’umanità, venne liberato su disposizione della Corte d’Appello per irregolarità nella documentazione rilevate dal ministro della Giustizia. E rimpatriato d’urgenza per ragioni di sicurezza nei rapporti fra Italia e Libia.
La stessa Meloni, in una parte allusiva della sua dichiarazione contro la separazione delle sue responsabilità da quelle dei due ministri e del sottosegretario, e Matteo Salvini, in modo esplicito, hanno contrapposto la scelta della premier alla condotta di un altro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nel 2019. Che scaricò proprio Salvini, anche allora vice presidente del Consiglio e in più ministro dell’Interno, anziché delle Infrastrutture come oggi, nella controversia mediatica e poi giudiziaria sulle resistenze opposte allo sbarco degli immigrati regolari soccorsi dalla nave spagnola Open Arms.
Non solo Conte scaricò Salvini attribuendosi il merito di non averne condiviso o assecondato l’azione, pur disponendo dei modi e delle occasioni per fermarlo davvero, ma poi, rimanendo a Palazzo Chigi col cambio di maggioranza in una crisi promossa dallo stesso Salvini, ne consentì in modo determinante il processo per sequestro di persona e altro nella necessaria votazione parlamentare di autorizzazione. Processo conclusosi in primo grado a favore del leader legista.
A parte, tuttavia, questo aspetto pur non secondario della vicenda innescata dalla protesta contro la sua archiviazione contrapposta nei fatti alla prosecuzione del procedimento contro i ministri Piantedosi e Nordio e il sottosegretario Mantovano, la premier ha voluto probabilmente cogliere l’occasione offertale dalla stessa magistratura per marcarne le distanze in un passaggio della politica e della legislatura molto particolare. Della politica, perché la Meloni di frequente contesta alla magistratura di volersi sostituire al governo, per esempio nella gestione dell’azione di contrasto dell’immigrazione clandestina. Della legislatura, considerando il percorso parlamentare della riforma della giustizia. Che la Meloni, contrariamente alle tentazioni di un rallentamento attribuitele ricorrentemente dalle cronache e dai retroscena, intende fare completare in tempo per affrontare il referendum cosiddetto confermativo prima delle elezioni politiche del 2027. Un referendum che evidentemente la premier, come il suo Guardasigilli, non teme.
A buon intenditor poche parole, dice un vecchio proverbio.