Il ddl Calderoli sull’attuazione dell’autonomia differenziata è legge. Ma, come spiega benissimo Gianni Trovati su Il Sole 24 ORE, nulla è destinato ad accadere tra breve.
Prima che l’Italia possa essere “spaccata in due” (su sanità, istruzione e trasporti, ecc.) come denuncia l’opposizione, occorrerà attendere la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e ci vorranno due anni, dopodiché occorrerà trovare le risorse per finanziarli (e qui si ergono i ben noti vincoli di bilancio).
Insomma, non succederà nulla (almeno per ora). Nulla, tranne, come sottolinea Trovati, «l’ennesimo corto circuito per cui la Lega, nel 2001 fiera avversaria della riforma costituzionale allora bollata come una “truffa”, oggi ne celebra l’attuazione con la legge Calderoli; mentre la sinistra, autrice del nuovo Titolo V che ha introdotto l’autonomia differenziata, denuncia in Aula e nelle piazze lo “Spaccaitalia” guidata dal Pd di Elly Schlein, fino all’ottobre 2022 vicepresidente di quella Regione Emilia-Romagna che ha chiesto sia al Governo Conte-2 sia all’Esecutivo Draghi l’attuazione dell’autonomia con legge quadro. Ma questa è la politica, o quel che ne resta».
Due elementi, aggiunge Emilia Patta, potrebbero comunque contribuire a tenere acceso il fuoco della contrapposizione Nord-Sud: la volontà dei governatori del leghisti, in primis il veneto Luca Zaia, di avviare comunque la trattativa sulla devoluzione di competenze senza attendere la definizione dei Led e il referendum abrogativo annunciato dalle opposizioni.
Ma la vicenda meriterebbe qualche ulteriore riflessione. Il cosiddetto federalismo (da cui è nata l’infelice riforma costituzionale del 2001), cioè la domanda di autonomia e di riforme istituzionali, è stato uno dei tormentoni che per anni, il più delle volte col linguaggio minaccioso e mitologico della Lega, ha accompagnato la travolgente trasformazione in atto in alcune regioni del Nord e doveva servire per ricomporre il rapporto logorato tra società e istituzioni. Per anni non si è parlato d’altro. Si è trattato di una proposta e di una disputa che ha assunto, come capita spesso, connotati fortemente ideologici. Le cose sono andate come sono andate e, anche se i tentativi di trasformare lo Stato non sono mancati (tanto che la Repubblica non è quella di prima), dopo anni di mancate promesse, la credibilità del federalismo è sfumata. E un po’ alla volta la stessa idea che sia possibile dare una risposta ai problemi del Paese, alle tensioni della società e perfino alle anomalie della politica italiana, “semplicemente” riprogettando le istituzioni, è apparsa meno convincente.
Ma oggi che il federalismo è diventato un problema (cessata la protesta e venuta meno la paura della secessione è venuta meno anche l’interesse verso tale riforma), non sarebbe male tenere a mente che, come ricordava Ilvo Diamanti, quella di nuove regole e di nuove istituzione è una strada “imposta da emergenze e fratture” che abbiamo scelto proprio “per sanare il contrasto fra società e Stato, fra società e politica”. Un contrasto che non è risolto per il fatto che ora al governo c’è Meloni, di marce sul Po non se ne fanno più e i giornali (e le associazioni degli industriali e perfino qualche prete) hanno smesso di parlare del Veneto come se fosse l’Ulster e del Friuli come se fosse la Catalogna. Il compito di riportare l’attenzione sul federalismo come progetto riformista (e cioè su pochi principi guida: responsabilità, flessibilità-adattabilità, autonomia fiscale, funzionalità) spetterebbe a chi, nonostante tutto, si ostina a credere alla sua utilità per l’intero Paese. Ma, si sa, il nostro non è un paese per riformisti.
«Tutti coloro che sparano contro l’attuazione dell’art. 116.3 Cost., perché “spaccherebbe l’unità del Paese” – ha scritto qualche tempo fa Roberto Bin, già ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara – dovrebbero riflettere su questo punto: che il Paese è già profondamente diviso e che i diritti fondamentali dei cittadini italiani non sono affatto garantiti su base di eguaglianza, tutt’altro. La Costituzione ha posto a carico dello Stato due responsabilità: quella di definire i livelli essenziali delle prestazioni e quella di controllare il rispetto dei LEP, intervenendo anche in via sostitutiva. Il che significa che per rendere effettivo il quadro costituzionale, con o senza attuazione dell’autonomia differenziata, quello che servirebbe non è solo la definizione dei LEP, ma soprattutto il controllo del loro rispetto: dati, controlli e verifiche, organi e procedure. Di tutto questo il DDL non parla».