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Javier Milei

Come l’Argentina è sprofondata in una nuova crisi

Argentina: l'enormità del debito pubblico ereditato, le morti da Covid, gli effetti della guerra d'Ucraina sui mercati finanziari hanno esasperato e fatto emergere fino al contrasto le diversità politiche esistenti nel populismo peronista alla guida di una coalizione di centro-sinistra governa l'Argentina. L'approfondimento di Livio Zanotti.

Un forte contrasto interno minaccia di fratturare la maggioranza peronista che governa l’Argentina. Pur indebolita, la presidenza di Alberto Fernandez tuttavia non sembra vacillare. Finora non ha fatto ricorso a nessun cambio di ministri, sebbene si dica che ne farà passata la Pasqua. Anche la vicepresidente Cristina Kirchner, motore e dichiarato riferimento della dissidenza nelle istituzioni, pur apertamente contrariata rimane al proprio posto. Chiede, però, la testa del ministro dell’Economia, Martin Guzman, perché sostenuto dal Presidente ha preferito un oneroso accordo con l’FMI al default. Per il Frente de Todos, la coalizione elettorale di centro-sinistra che fa perno sul peronismo, è comunque una svolta critica. Nella formazione egemone che si richiama allo scomparso Juan Domingo Peron c’è chi vede e teme il rischio della scissione.

L’origine populista del movimento, sebbene sedimentata in settant’anni di trionfi, congiure fratricide, colpi di stato, tradimenti e sanguinose rese dei conti, seguiti nondimeno da clamorosi ricongiungimenti, resta socialmente e politicamente eterogenea. Una natura che oggi, con la proliferazione dei populismi in ogni continente e sistema politico, non desta più lo sconcerto di altri tempi. Restando purtuttavia vivissime le preoccupazioni per gli effetti di logoramento che esercitano sulle istituzioni delle democrazie moderne. Senza ancor chiarire una volta per tutte se i populismi ne siano le cause o gli effetti. Se, cioè, non siano le incompiutezze, i bisogni insoddisfatti delle democrazie a sgretolare le società che governano, favorendone le tendenze alla disintermediazione politica e al provvidenzialismo opportunista di un leader.

Ad accendere lo scontro interno al governo argentino, da tempo latente, è stata l’intesa che dopo 2 anni di trattative il ministro Guzman ha raggiunto con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), per la restituzione dei 44mila milioni di dollari ottenuti in prestito dal precedente governo neo-liberista di Mauricio Macri. La metà dei quali sarebbero sfumati oltre frontiera, nel compiacente arcipelago delle banche off-shore, al momento stesso della riscossione. L’accordo concede di fatto due anni di tempo all’Argentina per cominciare a pagare e una certa flessibilità nei canonici controlli trimestrali del Fondo sulla politica fiscale, soprattutto sui criteri di spesa pubblica del grande paese sudamericano. Non se ne conoscono i termini esatti. Il rifinanziamento -com’è ovvio- non è comunque a titolo gratuito.

L’ala radicale del movimento, ai tempi di Evita detta dei descamisados, oggi incolonnata dietro Cristina nella tendencia La Campora, di fatto un partito condotto dal figlio, Maximo, nega ogni legittimità all’accordo. Lo considera inaccettabile, impossibile da pagare se non a prezzo di una recessione che infine diromperebbe comunque nel default. Ritiene, così come altre componenti di sinistra della coalizione e alcuni economisti indipendenti, che andasse respinto e denunciato internazionalmente. Si tratta del credito più grande mai concesso dall’FMI nella sua lunga storia dal secondo dopoguerra ad oggi. E’ comprovato che le procedure seguite per concederlo hanno violato norme e modalità interne in vigore nello stesso Istituto. Ma non sono previste un’istanza nè prassi specifiche per denunciarlo.

Di fronte alla defezione dei parlamentari che rispondono alla sinistra radicale, per ottenere la necessaria approvazione d’entrambe le Camere del Congresso nazionale all’accordo, Alberto Fernandez si è rivolto all’opposizione. Riuscendo a mettere insieme il voto favorevole di una ampia maggioranza; trasversale, però come lui convinta che la rottura con il Fondo avrebbe spinto il paese al default, lasciandolo privo di accesso al credito, con l’inflazione alle stelle e la moneta nazionale in caduta libera. Con lo stato in bancarotta e impotente, in attesa che un qualche tribunale sovranazionale le riconosca chissà quando ragioni in ogni caso d’impervia esigibilità. Una sfida in fondo a cui s’intravvedono possibili riforme costituzionali di fatto e non meno pericolose turbolenze di piazza.

Alberto Fernandez non ignora i rischi che insidiano l’Argentina. E neppure che nella primavera australe dell’anno prossimo, la campagna per le elezioni generali potrebbe trovarsi a coincidere con un periodo di severissima austerità, alta disoccupazione e ridotti aiuti sociali. Da cui con ogni probabilità deriverebbe una dura sconfitta per la sua coalizione, sempre che questa riesca ad arrivare compatta alle urne. Peggiore di quella già subita in circostanze analoghe con il voto di mezza legislatura nel novembre scorso e che ha fortemente ridotto l’agibilità parlamentare del governo. Questa sarebbe infatti irrimediabile. Perciò il presidente evita lo scontro aperto tanto con la dissidenza interna quanto con l’opposizione macrista, convinto di poter sopravvivere così alla tempesta. Sembra pensare che chi va piano, arriva lontano.

Calcola la catastrofica eredità ricevuta dal governo di Mauricio Macri: debito pubblico impagabile, media e piccola industria in rovina, salari tagliati del 20 per cento nella capacità reale d’acquisto (dato ufficiale). E inoltre i due anni di COVID piombati sul paese a poche settimane dall’insediamento del nuovo governo, con la conseguente crisi sanitaria e della produzione. Un carico monstre. Avrebbe potuto restarne schiantato e sospetta che questa fosse l’aspettativa dell’opposizione. Invece, nel 2021 il PIL è cresciuto del 10,3 per cento e la ripresa nell’anno in corso supera le previsioni. Tutti i conti pubblici sono migliorati nettamente. La produzione di ferro, cemento e laterizi ha raggiunto un record storico. La disoccupazione è scesa del 7 per cento. L’export galoppa. Le buone notizie, però, finiscono qui. Diluite nell’immediata congiuntura da quelle di segno opposto.

I prezzi al consumo non cessano di lievitare sotto gli occhi dei consumatori, spinti nelle ultime settimane anche dagli effetti della guerra in Ucraina sulla finanza internazionale e gonfiati dalla speculazione. La povertà è stata ridotta dal 46,6 per cento al 37,3, ma si tratta pur sempre di oltre 10 milioni di persone, delle quali un quarto in condizioni d’indigenza. L’economia informale occupa 4 lavoratori su 10. E l’inflazione diventa (in negativo) l’unico fattore unificante, che sommando un abbondante 50 per cento negli ultimi 12 mesi divora senza distinzioni salari e pensioni, tutti i redditi fissi prescindendo dall’origine più o meno certificata. Tanto che perfino economisti affini al governo si domandano se l’incremento determinato da certi settori produttivi non sia in concreto spiegabile con l’abbattimento di fatto del costo del lavoro.

Pur sommaria, questa sintesi economica generale lascia comunque intendere come lo scontro sul debito sia nondimeno solo la punta dell’iceberg (tanto più che l’accordo con l’FMI è ormai legge dello stato). La divaricazione nella maggioranza di governo scaturisce da punti di vista diversi nella redistribuzione degli utili prodotti tra capitale e lavoro. Problema ricorrente del riformismo a diverse latitudini. Ad esempio, nell’immediato argentino, attraverso bonus una tantum finanziati dai recenti super-profitti della grande industria alimentare, in modo da attenuare le incontestabili difficoltà delle famiglie per nutrirsi a sufficienza. E nel lungo periodo, creando un fondo per il pagamento del debito estero attraverso la tassazione del capitale non dichiarato depositato nelle banche estere (circa 400 miliardi di dollari, secondo stime recenti e attendibili). Operazioni non prive di una logica etica e giuridica, ma con ogni evidenza né semplici, né rapide.

Si tratta in ogni caso di proposte che anche quando fossero più facilmente praticabili, urtano contro la pratica del dialogo con cui Alberto Fernandez intende portare l’opposizione o almeno parte di essa a una politica di concertazione. Che la vice Cristina e i suoi descamisados a loro volta non proprio senza ragioni ritengono illusorie. A causa dell’animoso estremismo di tanta destra argentina. Ma soprattutto perché la concertazione costituisce storicamente un asse centrale delle politiche economiche del peronismo. Funzionando però per periodi limitati e sempre in fasi economiche espansive. Tanto con il primo Peron, a metà del secolo scorso, quando il peso argentino arrivò a fare aggio sul dollaro; quanto negli anni Settanta, quando il gran caudillo rientrò dal lungo esilio nella Spagna franchista per imporsi alla sinistra del Justicialismo, alla destra militare e all’inflazione, riuscendo a sconfiggere solo la prima.

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