È stata una notte di veglia e riflessione, ma non è bastata a smaltire la trepidazione che ha investito ieri il grande paese sudamericano, gelida e preannunciata dal meteo politico non meno d’una tempesta patagonica. La Corte Suprema, ridotta da rivalità e contrasti politici a soli tre dei suoi cinque membri originari, ha ratificato la condanna a sei anni di detenzione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici dell’ex presidente, ritenuta colpevole di corruzione. Non poteva non sapere, sembra essere il criterio di fondo seguito dai magistrati di tribunale e d’appello che indagarono una serie d’importanti appalti pubblici concessi durante uno dei due mandati presidenziali della vedova di Nestor Kirchner a società indirettamente a lei collegate. I legali di Cristina Kirchner, anch’ella avvocato, hanno denunciato gravi violazioni ai diritti della loro difesa. I giudici supremi hanno però respinto tutte le eccezioni. La sentenza non ha precedenti storici, sebbene scandali anche molto più clamorosi hanno accompagnato in passato vari capi di stato.
In un’ immediata reazione spontanea, decine di migliaia di militanti peronisti sono scesi in strada per protesta contro quella che ritengono un’infame persecuzione. In diverse città del paese, a Cordova, Rosario, Mar del Plata, hanno percorso in corteo il centro cittadino. Sono stati invasi, bloccando il traffico, anche alcuni accessi autostradali. A Buenos Aires, all’alba, le vie che circondano l’abitazione dell’ex presidentessa nella zona sud della capitale, sono ancora occupate dalla folla che vi si è trattenuta gran parte della notte. Per quanto se ne sa, non si sono tuttavia verificati incidenti di rilievo. Cristina non è stata presa alla sprovvista. Fin da ieri aveva messo in allarme i sostenitori, rivendicando la propria innocenza e attaccando pubblicamente con parole sprezzanti i giudici supremi (“Essere arrestata è un certificato di dignità”). Ieri sera è tornata a rivolgersi personalmente alle donne e ai giovani de la Campora, la forte e attivissima organizzazione diretta dal figlio Massimo, ai quali ha ripetuto che il suo arresto vuole escluderla dalla politica per nascondere la drammaticità della crisi economica e sociale.
Il confronto a distanza con Javier Milei, che kippah sul capo l’altro giorno è tornato nuovamente a inchinarsi al Muro del Pianto di Gerusalemme, invocando alle grida la “distruzione del socialismo”, appare in effetti intrecciarsi attorno alle inquietanti tensioni che scuotono l’Argentina. In bilico tra deflazione e incessante indebitamento, tagli della spesa pubblica e speculazioni finanziarie, proteste e repressione. In una realtà sociale spaccata tra un reddito fisso che perde ogni giorno capacità d’acquisto e diritti acquisiti, così falcidiando l’industria manifatturiera, quindi l’occupazione e il commercio, da una parte; e dall’altra gli interessi legati all’export-import , minerario e agricolo soprattutto, a banche, finanza e attività connesse. La chiamano tutti la grieta, il crepaccio, appunto. La grande informazione per prima, anch’essa divisa tra i sostenitori del governo e i suoi avversari, che denunciano le minacce personali del presidente Milei a chiunque lo critichi, le restrizioni senza precedenti per l’accesso alle conferenze stampa ufficiali alla Casa Rosada.
Il clima è surriscaldato. La grieta opera anche all’interno di ciascuno dei due campi avversi, entrambi con lo sguardo fisso alle elezioni suppletive nazionali di metà parlamentari del prossimo ottobre, ritenute decisive. Il peronismo mostra qualche volontà unitaria soltanto adesso che Cristina appare ormai costretta ai margini del gioco, se non esclusa del tutto. L’ex presidentessa, 72 anni, con quasi certezza otterrà gli arresti domiciliari. Ma non potrà comunque esercitare il proprio innegabile appeal personale. Sul fronte opposto, Milei, al momento, si presenta trionfante. Nell’alleanza competitiva con l’anche lui ex presidente conservatore Mauricio Macri ha avuto la meglio. Nelle recenti elezioni comunali di Buenos Aires gli ha sottratto buona parte del suo elettorato storico e il cugino Jorge Macri, ancora sindaco per un paio d’anni, dovrà negoziare di volta in volta l’appoggio nella giunta di governo. Le incognite sono tutte racchiuse nel futuro prossimo dell’economia, una scommessa ad alto rischio: dietro l’assenza di investimenti nell’ammodernamento industriale e la limitata capacità d’impiego dell’export, c’è il costo del debito.