Beda Romano è corrispondente da Bruxelles del Sole 24 Ore. Per la rivista trimestrale del Mulino, in un numero dedicato all’informazione in Italia, ha scritto un interessante saggio sul declino dei giornali. Perché sostieni che c’è una specificità italiana? Quali sono i modelli di successo che non abbiamo seguito?
Credo che ci siano almeno due caratteristiche che spiegano la crisi dei giornali in Italia.
La prima risale al secondo dopoguerra. Germania e Italia affrontarono in modo diverso la fine della dittatura e il ritorno della democrazia.
Nella Repubblica Federale i vecchi giornali furono chiusi, nuovi quotidiani videro la luce e tra la redazione e la proprietà furono create fondazioni indipendenti, con l’obiettivo di ridurre al minimo l’influenza degli editori sul giornale. Il periodo nazista aveva lasciato il segno e c’era il desiderio di garantire una stampa libera.
In Italia ciò non accadde. I giornali divennero, a seconda delle circostanze, proprietà di grandi aziende nazionali, di associazioni di categoria, di partiti politici, di enti confessionali. Non furono create muraglie cinesi tra redazione e proprietà. Questa scelta consolidò la tendenza degli editori a influenzare la linea editoriale, minando l’indipendenza dei quotidiani.
La seconda anomalia è più recente. I giornali italiani, a differenza di quelli di altri Paesi, tendono a seguire il flusso delle notizie, malgrado la rivoluzione provocata da Internet e dall’informazione in tempo reale.
La loro materia prima rimangono gli avvenimenti del giorno. I quotidiani guardano alla cronaca, piuttosto che all’attualità in senso più ampio. Non prendono le distanze dagli eventi: gli articoli, per la maggior parte, sono scritti a tambur battente, mancano gli approfondimenti.
Il risultato è che i giornali diventano un happening quotidiano. Non offrono molto di diverso dalla televisione, dalla radio o dai siti di informazione.
Se guardiamo agli altri Paesi europei, molti quotidiani riscuotono successo e aumentano le copie. Perseguono curiosità, rigore, indipendenza. Cercano di svincolarsi il più possibile dalla cronaca del giorno e guardano agli avvenimenti con il grandangolo. Così facendo competono ad armi pari con Internet, guadagnano lettori e offrono articoli di qualità che sopravvivono nel tempo.
I giornali italiani, per la maggior parte, sono invece rapidamente superati dagli eventi e invecchiano molto presto.
Un aspetto interessante che sottolinei è la cattura da parte della politica dei giornali, con ex politici o portavoce che fanno i direttori e i commentatori, o con agenzie di stampa che vivono solo grazie ai fondi di Palazzo Chigi. Anche questa è un’anomalia italiana?
In parte sì, è un’anomalia rispetto ai Paesi europei più moderni. Il motivo è relativamente semplice e si collega a quanto detto in precedenza.
I giornali italiani hanno, nella maggior parte dei casi, un assetto proprietario che tende a influenzare la copertura giornalistica, anche perché la stessa proprietà ha interessi che vanno ben oltre l’attività editoriale.
Il quotidiano diventa così uno strumento di pressione o di influenza nel dibattito pubblico. Da qui la tendenza a seguire il flusso delle notizie piuttosto che l’attualità più ampia.
In questo senso, con la politica i giornali hanno un rapporto promiscuo, comunque eccessivamente vicino. Guardiamoci attorno: di questi tempi, tre giornali nazionali contano tra i loro principali collaboratori tre ex presidenti del Consiglio.
In un recente passato, un altro ex premier è stato direttore editoriale di un quotidiano, mentre oggi un ex vicecapo del governo è commentatore assiduo di un grande giornale nazionale.
C’è di più: ai vertici del giornalismo italiano siedono persone che in passato erano parlamentari o portavoce di aziende pubbliche o private, di associazioni padronali o di personalità politiche.
Faccio un esempio: di recente un ex portavoce del governo è stato nominato alla guida di un giornale.
Il contesto — tra proprietà, ingerenze politiche e modelli sbilanciati sul flusso di notizie — condiziona anche i contenuti. Perché scrivi che il commento è un genere giornalistico molto più diffuso in Italia dell’analisi? Che differenza c’è tra i due tipi di articoli?
Il commento e l’analisi sono due generi giornalistici molto diversi tra loro. A differenza dell’analisi, il commento contiene l’opinione dell’autore, che è in fondo il succo dell’articolo.
L’autore farà del suo meglio — o almeno dovrebbe — per argomentare il proprio punto di vista con dati e fatti. Ma l’obiettivo rimane quello di offrire un commento, un punto di vista.
L’analisi, invece, non dovrebbe contenere l’opinione dell’autore: è chiamata a rivelare le diverse opinioni su un avvenimento o una tendenza, o più semplicemente a spiegare la complessità di una particolare situazione.
L’articolo serve a chiarire, non a giudicare. Prevede citazioni di osservatori esterni e dati che rafforzano le argomentazioni.
In Italia mi sembra che dominino i commenti più delle analisi. Sono più facili da scrivere e soprattutto meno controversi, se allineati alla proprietà.
In Italia ci si giustifica dicendo che un giornalista — come qualsiasi individuo — è portatore del suo bagaglio personale e quindi inevitabilmente soggettivo. È possibile. Ma farei una differenza tra oggettività e imparzialità: forse l’oggettività è difficile da raggiungere, ma l’imparzialità dovrebbe essere l’obiettivo del buon giornalismo.
(Estratto da Appunti)




