Bettino Craxi in jeans al Quirinale nel 1979 per il suo primo incarico; Giulio Andreotti scolpito nella sua grisaglia ministeriale. Craxi “che ti telefonava di colpo senza dire pronto, dire subito la sua e chiudere con un clic senza salutare, anche per farti capire il dono che ti aveva fatto del suo tempo”; Andreotti, allora ministro degli Esteri, che, invece, nel suo ufficio a Roma di Piazza S. Lorenzo in Lucina, dove riceveva al telefono dalle sei di mattina, raccomandò all’ambasciatore americano in Italia, che protestava, “possibile che non riesco a parlarci da due giorni?”, telefonate prudenti al premier Craxi durante la crisi di Sigonella, “in questi giorni Bettino è nervoso e se non aspetti un po’, poi finisce male, per cui ti consiglio: calma!”.
Craxi e Andreotti, così descritti con efficaci aneddoti da Marcello Sorgi, editorialista della Stampa, nella tavola rotonda – moderata da Alessandro De Angelis, vicedirettore di Huffpost Italia, con Massimo Franco, editorialista del Corriere della sera – conclusa da Stefania Craxi, accanto al figlio del “Divo Giulio”, Stefano Andreotti. È l’appuntamento che chiude un’intera giornata di studio, nella giornata di ieri, alla Sala Capitolare di Piazza della Minerva, a Roma, dedicata dalla Fondazione Craxi a “Craxi e Andreotti. Politiche stili e visioni tra conflitti e collaborazione”, con il patrocinio del Senato e del ministero della Cultura.
Con Stefania ci sono la presidente Margherita Boniver e il segretario generale della Fondazione Craxi Nicola Carnovale. È il primo appuntamento nel quale si mettono a confronto i due statisti, così diversi tra loro, ma il cui rapporto fu improntato alla massima lealtà, che resero il nostro Paese protagonista sull’asse euro-atlantico. Ma con una linea e visione di politica estera, da personaggi pragmatici e non all’inseguimento di miti, articolata, originale, complessa, di equilibrio. Craxi e Andreotti, come osservano nei numerosi “panel” tematici studiosi, storici, ambasciatori, articolarono quell’asse euro-atlantico sulla politica del Mediterraneo e una visione rivolta a Est, nel tentativo di portare il mondo che si muoveva a Est, dopo il crollo del Muro, in una politica di sicurezza europea. Stefano Andreotti ricorda che suo padre vide con interesse e simpatia l’arrivo di quel giovane leader socialista-anticomunista (“l’anticomunismo il loro collante”) alla guida di Palazzo Chigi, nel 1983, a soli 49 anni, un’età-record, giovanissima allora per un premier, che era diviso per età anagrafica da Andreotti da un paio di generazioni.
Stefania Craxi racconta che da piccola cercava di seguire suo padre all’estero e spesso si trovava accanto a Andreotti: “Non mi parlava, sempre intento a studiare e prendere appunti, durante il volo”. Andreotti fu il ministro degli Esteri che accompagnò “Bettino”, per la sua prima visita a Washington. Stefania ha trovato un appunto di “Giulio”, il quale in Usa iniziò ad andare dai tempi di J.F. Kennedy. In quelle righe Andreotti scrisse in sintesi: “Il mio modo di lavorare è completamente diverso da quello di Craxi, io prendo appunti, Craxi no, però lui va subito sempre al centro dei problemi”. Fu il riconoscimento del “Divo Giulio” a quel giovane premier socialista-anticomunista cui Washington indirizzò tutto il suo interesse.
Secondo la vulgata, tornata a impazzare in questi giorni di guerra della Russia all’Ucraina, Craxi sarebbe stato l’anti-americano per la crisi di Sigonella. In realtà, come ricostruisce un parterre di storici e esperti di prim’ordine, coordinati dal lavoro del presidente del comitato scientifico della Fondazione, Giovanni Orsina, di Andrea Spiri, storico, a sua volta, della Luiss Guido Carli, Matteo Gerlini, Antonio Varsori, Craxi (lo sottolinea Leopoldo Nuti, dell’Università Roma tre) fu il premier decisivo per gli Usa in Europa per l’installazione degli euro-missili a Comiso, per cui quel periodo di forti tensioni, dove a Sigonella fece valere il principio della sovranità “fu riassimilato nel quadro di una solida e leale alleanza euro-atlantica”.
Craxi, attaccato da sinistra come “L’Amerikano” fu ritenuto dall’amministrazione Reagan decisivo in Europa per la fine della guerra fredda. Sono cose che oggi vengono esemplificate, se non stravolte nei talk tv e social, tirando ogni volta Craxi per la giacca da una parte e dall’altra, ma di fronte ai quali “chissà che faccia farebbero Craxi e Andreotti?!”, ironizza Stefania. Entrambi, definiti “i due giganti”, durante il convegno, resero l’Italia protagonista nel Mediterraneo, di cui costituisce il ponte Sud dell’Europa, oggi per la vulgata che straccia ogni pensiero complesso sono i “due filo-palestinesi”. La verità è che entrambi gli statisti a Tunisi chiesero a Arafat di abbandonare le armi e riconoscere lo Stato di Israele, Craxi e Andreotti chiesero patria e diritti per i palestinesi perché solo così le tensioni non sarebbero più ricadute su Israele. Tema “politico”, non meramente territoriale, che posero a Reagan.
Se il giovane premier in jeans tutto proteso sulla modernità degli ’80, che prendeva pochi appunti ma andava secco con poche parole dritto al cuore dei problemi, cambiando per primo anche il linguaggio della politica, europeista convinto con l’Atto unico europeo a Milano, ma consapevole dei problemi che sarebbero venuti poi, per cui fino agli ultimi anni da Hammamet nel ’97 rilanciò la necessità di rivedere i trattati di Maastricht, europeista ma non eurolirico (“È necessaria un’Europa sociale, che me ne faccio di quella del pomodoro?”) prendeva di petto i temi, il suo ministro degli Esteri, il sette volte premier “Giulio” era la prudenza fatta persona. “Io sono un burocrate”, diceva di se stesso Andreotti con autoironia. Ma quel “burocrate”, che disse dopo un rovescio politico che in fondo il Viale del Tramonto è tanto lungo, era l’altro gigante, prezioso per Craxi. E, pur nelle differenze, leale con lui. Ricorda Sorgi: nei giorni di Sigonella “in fondo all’ambasciatore americano avrebbe potuto segnalare con un gesto, una parola un suo qualche dissenso da Craxi, e, invece, no, anzi invitò l’ambasciatore alla calma, e quello era davvero un grande caso internazionale, con ricaschi pazzeschi”.
Il “Divo Giulio”, che già conosceva Washington come le sue tasche, ci tornò con aria dimessa, con l’umiltà dei grandi accanto al giovane premier modernizzatore e non conservatore, ricorda l’ambasciatore Riccardo Sessa, già consigliere diplomatico di Andreotti. “Bettino” e “Giulio”, la strana coppia che contribuì a rendere protagonista l’Italia, furono uniti anche dalla persecuzione giudiziaria. Spiri ricorda l’amara e affettuosa dichiarazione in morte di Craxi a Hammamet di Andreotti, “la vecchia volpe non finita in pellicceria (come aveva profetizzato Craxi ndr)” che cercò di aiutare “il cacciatore” per poter almeno tornare in Italia, da uomo libero, come aveva chiesto, per curarsi in quei suoi ultimi giorni e allungare un po’ la sua vita. Stefania Craxi ricorda i vani tentativi di Andreotti che le fu vicino in quei drammatici giorni, e di come il padre Bettino fosse felice per l’assoluzione del suo ex ministro degli Esteri.
“Ma quel giorno – aggiunge Stefania – mio padre disse: qui l’unico ‘criminale’ sono rimasto io e da quel giorno incominciò a morire”. Conclude la figlia dell’ex premier socialista: “Oggi per fortuna per la prima volta si è potuto parlare in modo storiografico di due protagonisti della storia, e non della cronaca, politica italiana, che non fu un romanzo criminale”. E a chi dice che Craxi a differenza di Andreotti non restò in Italia a difendersi, Stefania Craxi ricorda una cosa di non poco conto, che spesso sfugge ai più: ” Mio padre non era senatore a vita, non aveva l’immunità. In carcere temeva di essere ucciso”. A Craxi sarebbe toccata la galera, forse unico caso per un ex premier, peraltro del più longevo governo della Prima Repubblica, nelle democrazie occidentali.