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Sanzioni Usa all’Iran, che cosa c’è di nuovo per l’Italia

L’articolo di Massimo Ortolani   È notizia dei media che il 26 marzo scorso l’Office of Foreign Assets Control (Ofac) del Dipartimento del Tesoro americano, ha annunciato un accordo transattivo con una società italiana che produce ed esporta valvole e componenti per il settore dell’impiantistica al fine di risolvere presunte violazioni dei regolamenti sulle sanzioni…

 

È notizia dei media che il 26 marzo scorso l’Office of Foreign Assets Control (Ofac) del Dipartimento del Tesoro americano, ha annunciato un accordo transattivo con una società italiana che produce ed esporta valvole e componenti per il settore dell’impiantistica al fine di risolvere presunte violazioni dei regolamenti sulle sanzioni Usa verso l’Iran. Tra il 2013 ed  il 2017 infatti, la società avrebbe riesportato 27 spedizioni di pressostati per aria acquistati da una società statunitense e destinati a 10 clienti iraniani, implementando in tal modo una esportazione indiretta in Iran di produzioni statunitensi.

Trattasi di un isolato caso di cronaca che serve, però, a riportare ancora una volta l’attenzione sugli aspetti geopolitici e geoeconomici del fattore sanzionatorio nel suo complesso su scala internazionale. Per l’Italia, trattasi infatti fondamentalmente delle sanzioni americane e del loro impatto di extraterritorialità, ma anche di quelle della Ue verso l’Iran e la Russia, delle contro sanzioni russe, ecc, quali impliciti vincoli dell’export potenziale italiano. Notoriamente le sanzioni non sortiscono sempre e comunque gli effetti sperati, dipendendo fondamentalmente dal potere geopolitico di chi le applica e da quello geoeconomico di chi ne è il target diretto.

La giustezza delle sanzioni come noto promana dalla violazione di principi di diritto internazionale (occupazione della Crimea), contrasto ad attività di proliferazione nucleare, violazione dei diritti umani e civili, ecc. Tali atti decisori determinano situazioni difformi da caso a caso, con variazione del mix di prodotti/servizi esportati nei paesi target, deviazioni dei flussi di export verso altri mercati, che possono in parte compensare le perdite verso i target, ovvero sostituzioni di import (Russia) con invece riduzione dei flussi precedentemente esportati. Situazioni che, ad oggi, pongono quindi seri quesiti ai leader mondiali del capitalismo “politico” quanto all’ ipotesi di continuare a privilegiare lo strumento sanzionatorio in forma punitiva, ma al di fuori di un quadro di più ampie azioni/costrizioni di politica estera.

Proprio in questi giorni è giunta, però, anche la buona notizia che sul piano diplomatico ci si sta muovendo per un incontro a breve, a Vienna, finalizzato ad un possibile riesame del Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action) tra gli iraniani ed i rappresentanti dei paesi ancora parte dell’accordo. Si tratta di negoziazioni che potrebbero risultare utili anche agli Usa, usciti da tempo dal Jcpoa a seguito delle decisioni prese dal precedente presidente americano.

Siamo ormai alle soglie: del plausibile definitivo passaggio a tempi di normalità economica post-Covid, della definizione di una più assertiva autonomia strategica della Ue — per una politica estera caratterizzata sul piano geopolitico dalle cospicue aspettative sul piano dei rapporti transatlantici — e dell’implementazione degli impegni di rilevanza geoeconomica del G20 a guida italiana. Dunque, un frangente temporale più che opportuno anche per affrontare un chiarimento su tali problematiche, privilegiandone l’aspetto metodologico. Senza approcciare quindi contesti nazionali separatamente, bensì analizzando in una chiave di diplomazia geostrategica — con accordi tra alleati e paesi amici — la problematica del come diversamente affrontare e gestire rischi  geopolitici e geoeconomici che promanano dai quadranti dell’Europa dell’ Est, del Mediterraneo (Tunisia-Libia) e del Medio-oriente (Libano).

La prevista visita a Tripoli del nostro capo del governo, e le sue recenti interlocuzioni telefoniche con Erdogan sembrano testimoniare dell’impegno di assertività dell’interesse nazionale nel Mediterraneo. Ormai una area in cui fattori generatori di volatilità del cambio e dei flussi di import-export sono ascrivibili anche alla improvvida politica economico-finanziaria di una media potenza militare come la Turchia, rivelatasi però alquanto abile nel giocare di sponda tra: Nato, Russia, Libia, Siria, Cina, ecc.

Operare di sponda per la mitigazione dei rischi geopolitici in tale quadrante costituisce certamente una sfida di estrema difficoltà sul piano della diplomazia politica ed economica. Ma risultati insperati non sono stati recentemente raggiunti da Usa ed Israele con il piano Abram?

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