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Cervelli In Fuga

A cosa serve l’industria dei diplomi di laurea?

Alla Pubblica Amministrazione servono (e a cosa) le Università? Idee impertinenti al ministro Maria Cristina Messa. L'intervento di Emilio Lonardo, esperto di Pubblica Amministrazione

 

Nelle attendibili classifiche internazionali l’Italia è ancora al settimo posto dei paesi più industrializzati al mondo e prima al mondo, con il 5% (non il 50% come affermano inguaribili e male informati sciovinisti!) del totale mondiale del patrimonio artistico censito dall’UNESCO. Ed è sicuramente uno dei paesi in cui, da Pitagora in poi, è stata prodotta più cultura, arte, grande letteratura. È, inoltre, la sede della più antica tra le università ancora attive nel mondo: quella di Bologna, che precede di pochi anni Oxford, Cambridge e Salamanca. Pensiamo che, inoltre, tra le 25 più antiche università al mondo ben 11 sono quelle italiane!

Dal punto di vista storico, dunque, sulle università “non c’è partita” tra l’Italia e qualsiasi altro paese. Ed anche il grande patrimonio culturale, materiale ed immateriale, del nostro Paese, assieme alla ancora invidiabile posizione tra i paesi più industrializzati, dovrebbero fare delle nostre università un centro propulsore della cultura di livello mondiale in molti campi.

Invece, il 10 giugno è stata pubblicata da QS World University Rankings, la classifica globale delle università più consultate al mondo, con responsi che continuano a vedere le università italiane lontane dal vertice mondiale di questi decisivi istituti di sapere.

Le prime dieci classificate, sulla base delle opinioni di 102.662 docenti, accademici e ricercatori e di 51.649 manager e direttori delle risorse umane, oltre all’analisi di 18.530.368 pubblicazioni scientifiche e 138.397.765 citazioni, sono tutte università statunitensi e britanniche in cui si inserisce la continentale Zurigo.

La prima università di un paese dell’Unione Europea è quella di Monaco di Baviera, al 50° posto. Segue la PSL di Parigi al 52° e, via via, fino al 100° posto, per l’Unione Europea, università tedesche, olandesi, belghe e danesi. L’Italia non compare se non, molto dopo, al 137° posto con il Politecnico di Milano, dopo le prime università di Irlanda, Finlandia e Svezia. Certo, alcune università italiane precedono in classifica le università spagnole, portoghesi e greche e quelle dei paesi UE dell’Europa orientale. Ma non c’è da consolarsi (e non c’è da consolarsi nemmeno per l’Europa), perché noi guidiamo, per usare una parafrasi ciclistica, il gruppo dei ritardatari.

Ora, la ripresa delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione italiana e il rinnovo dei rettori in alcune tra le più importanti università italiane possono spingerci a mettere giù qualche ipotesi di lavoro – alla luce delle classifiche esposte – utile ad affrontare alcuni dei problemi delle università italiane. Ho amici universitari con brillanti carriere ed altri, ugualmente bravi, valorizzati in università estere e non in quelle italiane. Ma, non avendo mai tentato la carriera universitaria, non ho posizioni da difendere o consuetudini da mantenere. Ho solo interrogativi un po’ originali da porre.

Per i concorsi nella Pubblica Amministrazione, ad esempio, ho visto un uso del requisito del diploma di laurea piuttosto soggettivo. Fatti salvi i ruoli specificamente tecnici, sui quali il diploma di laurea è assolutamente abilitante a svolgere quel mestiere, mi chiedo se abbia ancora senso usare le singole lauree o gruppi di lauree per ammettere i concorrenti a certi concorsi nella PA.

Il tema della presenza di lauree triennali accanto a quelle “magistrali”, l’enorme autonomia degli atenei nel definire (e a volte inventare) nuovi diplomi di laurea, la abitudine, pur apprezzabile dal punto di vista dei sentimenti, di promuovere agli esami studenti a solo scopo “umanitario” (ho visto laureati in giurisprudenza che non erano in grado nemmeno di rispondere alla domanda su quali siano le fonti del diritto), l’abilità di certe amministrazioni nel “maneggiare” i diplomi richiesti per concorsi esterni o promozioni al solo scopo di includere i predestinati ed escludere concorrenti a volte più bravi, fanno propendere per l’idea di consentire l’accesso alla PA, per le categorie per cui la laurea è richiesta, senza barriere tra diplomi di laurea o gruppi di diplomi. Ribadisco: esclusi ruoli riguardanti materie di forte scientificità, dal medico all’agronomo, dall’ingegnere (ma quale branca?) al chimico.

Un altro tema importante è, invece, sul versante delle università, il meccanismo di nomina dei rettori. La legge n.240/2010 in materia di organizzazione delle università prevede l’autonomia delle Università nel decidere le modalità di elezione del rettore. Poco cambia, tra le diverse Università, nella identificazione del corpo elettorale. Comunque, pur variando pesi e contrappesi da assegnare a ciascuna categoria – dai professori e ricercatori, al personale amministrativo, agli studenti – rimane il fatto che il principale protagonista della vita universitaria viene scelto in casa propria (e inevitabilmente sarà un interno a quella università) nell’ambito di una campagna elettorale, a volte poco edificante, fatta di sfide, antipatie, rafforzamento di certi “baronati” contro altri e via dicendo.

E la qualità? Negli Stati Uniti il rettore (più spesso definit “president”) è di norma un professore interno che, però, viene nominato da un board che governa l’università ed è nominato dai proprietari dell’università (rappresentanti degli azionisti se private o organi dello Stato se pubbliche). Nelle università di privato non-profit, infine, ci sono sistemi di nomina diversificati, ma spesso giocano un ruolo di rilievo le associazioni degli ex studenti.

Sempre per rimanere alle università di successo e prime nella classifica 2021, ad Oxford il rettore (chancellor), viene nominato a vita dalla Convocation, un organo collegiale formato da tutti i laureati all’Università; ugualmente accade a Cambridge. Dunque, negli USA le campagne elettorali non sono necessarie in quanto il rettore è scelto dalla proprietà, in Inghilterra in quanto il rettore è scelto dagli ex studenti. Quindi: niente scambi tra “baroni” e promesse elettorali come spesso capita in Italia.

Infine, il tema del rapporto tra le università italiane ed il territorio. In alcune città di media dimensione, come ad esempio Bologna, l’università e la città si identificano, ma non si confrontano quasi mai. Non sarebbe il caso di un po’ di concorrenza tra Università, per renderle più competitive e far loro scalare la classifica mondiale della qualità da qui a dieci anni?

E il “sistema UE” delle università? All’Università di Zurigo, proprio l’unica università continentale anche se non UE che compare in classifica tra le prime dieci, Winston Churchill nel 1946 tenne nell’aula magna il suo famoso discorso alla gioventù accademica del mondo, che culminò nel celebre appello all’Europa: “Therefore we say to you: let Europe arise!” (Perciò vi diciamo: che l’Europa sorga!).

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