Pur abituata da tanto tempo all’incertezza di come chiamare un progetto nuovo, o magari solo di ristrutturazione dell’esistente, come dimostra “la Cosa”, con la maiuscola, attorno alla quale lavorò Achille Occhetto quando decise di sottrarre il suo Pci alle macerie del muro del Berlino e di chiamarlo in altro modo, la politica si è lasciata sorprendere dal problema del nome all’alternativa che Pier Luigi Bersani, rinunciando una volta tanto alle sue note e divertenti metafore, propone nei salotti televisivi.
Mi riferisco naturalmente all’alternativa al centrodestra, come in tanti ancora continuano a chiamare quello che invece con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi è diventato “destra-centro”. E solo i familiari, quelli veri, che lo frequentavano davvero senza bisogno di passare per i segretari o le segretarie o i cerchi più o meno magici di turno, sanno quanto Silvio Berlusconi avesse faticato ad accettarlo o chiamarlo così. E ciò, ammesso e non concesso che lo abbia mai chiamato davvero così dopo la pur scontata, anzi scontatissima vittoria elettorale dei fratelli d’Italia nelle elezioni leggermente anticipate del 2022. Destinate peraltro a sfociare, per dannate circostanze di calendario istituzionale, fra insediamento delle Camere, consultazioni al Quirinale e nomine da parte del presidente della Repubblica, nella formazione del governo della Meloni il 22 ottobre, a ridosso del centenario della marcia fascista su Roma datata 28 ottobre 1922.
A Repubblica, quella di carta, la corazzata della flotta mediatica d’opposizione, quell’incrocio di date, quell’intreccio di storia e cronaca politica fu vissuto come un incubo, mi ha raccontato un collega che vi lavora.
Anche se Goffredo Bettini si è vantato di recente di avere chiamato lui per primo “campo largo” quello contro il centrodestra, quando esso si era praticamente formato preventivamente con la formazione del secondo governo di Giuseppe Conte, e prima ancora che quel presidente del Consiglio fosse sempre da lui indicato come il punto di riferimento più avanzato dei progressisti italiani, credo che la maternità spetti ad Elly Schlein dopo il suo arrivo alla segreteria del Pd succedendo ad Enrico Letta. Che il campo largo rivendicato da Bettini lo aveva sepolto affrontando come aveva voluto, cioè restringendo i confini delle alleanze a sinistra, le elezioni anticipate -ripeto- sopraggiunte alla crisi del governo di Mario Draghi.
Ma, una volta sentitolo pronunciare dalla Schlein, che pure aveva segnato nel Pd quella “discontinuità” che egli aveva reclamato per riprendere i contatti interrotti l’anno prima, Conte ebbe da eccepire. E reclamò che si considerasse e si chiamasse “giusto”, più che largo. Gli interessava più la qualità che la consistenza, la dimensione e quant’altro dello schieramento da allestire.
Quando il confronto politico, come lo chiamiamo noi giornalisti scimmiottandone protagonisti e attori, ha reso incontrovertibilmente largo il campo bersaniano dell’alternativa, esteso sino a Matteo Renzi, smanioso di parteciparvi giocando anche a pallone con la Schlein, si è scoperto che gli manca “il tavolo”. Ne ha scritto, in particolare, la collega di Domani Daniela Preziosi attribuendo alla segretaria del Pd una certa stanchezza di partecipare a manifestazioni, cortei e simili con i possibili alleati e voglia invece di riunirli finalmente attorno a un tavolo, appunto, per cominciare a stendere un programma. O qualcosa che gli assomigli. Un tavolo concreto, che risparmi a lei la fine di Penelope e ai pretendenti quella dei proci.
Il caso ha voluto che il richiamo omerico della collega di Domani alla Schlein-Penelope abbia coinciso con la pubblicazione su ItaliaOggi di un’arguta vignetta di Claudio Cadei su Matteo Renzi rappresentato come il cavallo inventato da Ulisse per penetrare a Troia ed espugnarla distruggendola. Diavolo di un Cadei. Che ci abbia fregato tutti nell’analisi e nell’epilogo di tutta questa lunga vicenda del campo lungo? La Campeide, direi, della sinistra.