Nel gruppo delle “teorie zombies”, come le ho definite in un precedente articolo, potrebbe essere inserita la tesi secondo la quale l’euro ha determinato la bassa crescita dell’Italia e una conseguente riduzione del PIL pro-capite nazionale e che i parametri di Maastricht siano immutabili nel tempo. Al contrario l’euro ha difeso l’economia italiana dalla più grave crisi economica del dopoguerra e ne ha ridotto i nefasti effetti. Ha però bisogno, a 25 anni dall’introduzione del Trattato di Maastricht e a 20 anni dalla sua introduzione, di una rivisitazione della sua governance.
A tal proposito propongo una strategia di sostenibilità dell’euro che renda complementari sia gli investimenti pubblici che privati, rafforzi la governance della moneta unica e che possa creare, contestualmente, le condizioni per modificare/integrare gradualmente i parametri di Maastricht, secondo un indirizzo di politica economica che potremmo definire “investiment push approch”. L’obiettivo è la sostenibilità dell’euro per tutti i Paesi aderenti e una spinta alla loro crescita economica.
I punti salienti di questo approccio potremmo sintetizzarli in 5 punti:
- Istituzione di una Politica Fiscale Europea (PFE) e di un Bilancio federale
L’istituzione di una politica fiscale comune, che non sia la sommatoria delle politiche fiscali dei Paesi membri e, in prospettiva, di un bilancio «federale» europeo sul modello statunitense, che favorisca la riduzione della pressione fiscale e un aumento degli investimenti con delle risorse proprie che possano finanziare un bilancio unionale pari al 4-5% del PIL. Un bilancio Ue che oggi rappresenta solo circa l’1% del PIL europeo (PIL pari a circa 18,495 miliardi di dollari) rispetto a circa il 20% del bilancio federale USA sul PIL statunitense (PIL pari a circa 17,418 miliardi di dollari).
- Nomina di un Ministro delle finanze europeo
La nomina di un “Ministro delle finanze europeo” che gestisca la politica fiscale comune e il bilancio comunitario, in modo da consentire anche l’eliminazione graduale dei parametri di bilancio (un fragile e dannoso surrogato di policy) che hanno colmato “impropriamente” una lacuna di governance.
- Modifica dello Statuto della BCE
Il riequilibrio dei poteri in materia monetaria della Banca centrale europea, con la creazione di un «organismo politico» per la gestione della politica economica dell’UE e il cambiamento dello statuto della BCE sul modello FED: non solo salvaguardare l’andamento dell’inflazione ma anche avere come obiettivo crescita e sviluppo. Infatti la volontà del legislatore comunitario dell’epoca, oltre a dare la giusta autonomia alla BCE nei confronti delle autorità politiche, come previsto all’art. 105 del Trattato di Maastricht, fu quella dell’esclusivo mantenimento della stabilità dei prezzi che è per la funzione monetaria primario e prioritario a qualsiasi altro obiettivo perseguibile attraverso il governo della liquidità. Un approccio che nel medio-lungo periodo limita enormemente le potenzialità di intervento della BCE e si rileva controproducente allo stesso conseguimento dell’obiettivo.
- Politica del cambio con “griglie di flessibilità”
Una politica del cambio che tenga l’euro “legato” ad una sostanziale parità con il Dollaro, prevedendo delle “griglie di flessibilità del cambio”, sul modello del vecchio ECU, rispetto alle principali monete di interesse mondiale (oltre al Dollaro, anche Yen, Renminbi e Sterlina britannica). In questo modo si potrebbe dare la possibilità di svalutazioni pilotate da parte della BCE, con una banda di oscillazione nei confronti delle parità centrali dell’euro rispetto alle altre monete più o meno ampie (del +/-2,25% ovvero del +/-6%) a seconda delle fasi del ciclo economico. L’obiettivo è quello di fornire uno strumento in più alla politica monetaria della BCE, scoraggiare la speculazione e favorire i processi di internazionalizzazione sia di tipo macro che micro dell’economia europea e delle sue MicroPMI. Inoltre, per evitare gli errori del passato e soprattutto per intervenire sui rapporti di cambio tempestivamente si potrebbe dotare il sistema di un meccanismo di controllo con un “indicatore di divergenza” tra l’euro e le altre monete internazionali.
- Graduale rimodulazione dei parametri di Maastricht
Se introdotte suddette innovazioni di governance sarebbe possibile, e solo in quel caso, rivedere la visione rigida e «ragionieristica» dei parametri e incominciare a pensare a una loro progressiva rimodulazione e successiva, graduale eliminazione (si ricorda che i parametri sono in surroga all’assenza di una politica fiscale comune e di un bilancio federale europeo). Una old strategy sostituita da una impostazione, seppur rigorosa che: a) segua le «tendenze di rientro» e non i valori assoluti degli indicatori e della loro sostenibilità in termini di PIL e del risparmio aggregato (pubblico e privato) con particolare riferimento alla sostenibilità del debito pubblico anche in relazione al debito privato. La somma dei due aggregati oltre a presentare uno scenario macroeconomico più corretto e aderente alla realtà economica dei singoli Paesi, per quanto riguarda l’Italia presenta una situazione addirittura leggermente migliore rispetto ad altri Paesi europei (ad esclusione della Germania); b) sterilizzazione permanentemente e in forma automatica dagli investimenti e dai fattori ciclici nel calcolo del deficit pubblico in termini di Pil, in modo da destagionalizzare i valori, concentrandosi solo sulle componenti strutturali e di spesa corrente del deficit. Lo stesso Trattato di Maastricht è chiaro su questo punto; c) affiancamento dei parametri di finanza pubblica anche con alcuni di economia reale come il tasso di occupazione e il tasso di disoccupazione.
Un importante impulso finanziario a questa strategia potrebbe essere dato da:
- Il miglior utilizzo di parte dei circa 200 miliardi di dollari (a seconda delle stime) di riserve «in eccedenza» (valutati in circa il 5% del Pil comunitario) delle Banche centrali europee in conseguenza della creazione dell’ euro che potrebbe essere utilizzato in parte per ridurre il debito pubblico. Azione che se comunicata correttamente nei suoi obiettivi ai mercati non creerebbe assolutamente un “deficit” di fiducia. Infatti, con la creazione dell’euro i Paesi partecipanti all’UEM non devono più stabilizzare i cambi tra le loro monete, di conseguenza la domanda di riserve si è “annullata”. Secondo la Commissione Ue la riduzione delle riserve ha liberato circa 200 miliardi di dollari;
- la canalizzazione del risparmio privato liberato dalla riduzione del debito pubblico verso il project financing;
- il ridimensionamento del peso della PAC (Politica Agricola Comune) che ancora oggi ha un peso nel bilancio comunitario pari circa il 40% per un settore che ha un peso medio sul Pil Ue pari a circa il 2%, dando priorità alle politiche di sviluppo;
- il rafforzamento della centralità alle MicroPMI con un Piano europeo e rilanciare lo Small Business Act (SBA) che, dopo l’enfasi data nel primi anni della sua introduzione (Raccomandazione Commissione Ue del 2008 e, in Italia, con Direttiva SBA – DPCM del 2010) è stato nei fatti abbandonato;
- l’ampliamento finanziario del Piano Industria/Impresa 4.0 con particolare supporto alle micro e piccole imprese.
Giuseppe Capuano, economista, attualmente dirigente del Ministero dello Sviluppo Economico.
(Le opinioni espresse nell’articolo non coinvolgono assolutamente il MISE e sono strettamente personali)