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La Germania Est cadde prima a Lipsia, poi a Berlino

Uno dei passaggi fondamentali per la caduta della Ddr, la Germania Est, non si svolge a Berlino ma a Lipsia. Il racconto di Pierluigi Mennitti.

Rievocare le tappe che nell’autunno del 1989 portarono alla caduta dei regimi comunisti dell’Europa orientale può apparire un nostalgico triplo salto all’indietro, peraltro in tempi in cui le promesse di pace e prosperità (la fine della storia) che quel passaggio epocale prometteva soccombono sotto i colpi dei missili russi contro le città ucraine e nel più generale clima di instabilità e conflitto globale che il mondo sta vivendo in questi anni.

Eppure gli anniversari, che giungono per celebrare a volte stancamente il passato, qualche obbligo di rievocazione lo impongono, non fosse altro perché calarsi nuovamente in quei climi e in quelle atmosfere può aiutare a capire anche le difficoltà del presente.

Quel profondo movimento di popoli e passioni che prese vita nel 1989 è simboleggiato dalla caduta del muro di Berlino, la sera del 9 novembre. L’anniversario che la ritrovata capitale tedesca si appresta a celebrare tra qualche settimana è di quelli tondi: il trentacinquesimo. Sembra ieri, ma sono passati sette lustri, il tempo pieno di una generazione e mezza. Era il tempo, sostenevano allora i più pessimisti, che ci sarebbe voluto per colmare le differenze createsi in quarant’anni di divisione tra est e ovest. Oggi ci si rende conto che 35 anni non sono bastati. I motivi sono tanti e sono tema di studi e analisi che accompagnano il dibattito quotidiano. Qui invece torneremo a rievocare alcuni dei momenti cruciali che nel 1989 portarono milioni di (est)europei a ribellarsi e poi abbattere regimi comunisti totalitari.

Uno dei passaggi fondamentali per la caduta della Ddr, la Germania Est, non si svolge a Berlino, ma a Lipsia. Non a novembre, ma a ottobre, esattamente un mese prima della caduta del muro. La sera che cambia i destini della Germania ha infatti l’odore aspro di un ottobre sassone. È l’odore della paura, della tensione, della speranza. Un odore che non vedi ma respiri a pieni polmoni. Freddo e umido, penetra nelle ossa, manda in fibrillazione il sistema nervoso. S’impregna dei fumi aspri delle stufe a carbone e delle fabbriche chimiche che da anni rendono l’aria di Lipsia asfissiante. Si alimenta del fiato caldo di settantamila cittadini che sentono arrivare il momento decisivo. S’impasta del respiro silenzioso di migliaia di poliziotti in assetto da guerriglia, schierati nei punti nevralgici della città. Ha le sembianze di una piazza cinese, Tienanmen, lontana migliaia di chilometri, ma mai come quella sera vicina, vicinissima.

È la sera del 9 ottobre, il giorno in cui la Ddr cesserà di essere uno Stato per diventare un corpo in decomposizione. L’altra rivoluzione d’ottobre si dipana dunque per le strade di Lipsia, nello spazio raccolto di una città di provincia. Mancano pochi minuti alle diciassette di lunedì, data e orario abituale delle Montagsdemonstrationen, gli appuntamenti rituali che la chiesa organizza da qualche mese sulla scia delle preghiere per la pace dei primi anni Ottanta. Dentro e fuori la Nikolaikirche, la chiesa protestante che si erge nel bel mezzo del centro storico di Lipsia e che oggi si fregia di una serie di targhe commemorative appiccicate sui muri come medaglie al valore, si raccolgono migliaia di persone. Erano arrivati in mille il 4 settembre, in ottomila il 25 e in ventimila il 2 ottobre, una settimana prima. “Cosa sarebbe accaduto quella sera non poteva prevederlo nessuno”, ricordava Christian Führer, il parroco della chiesa dal cognome imbarazzante ma dal carisma travolgente, amico di Vavlav Havel e Lech Walesa, divenuto l’icona delle manifestazioni di Lipsia e scomparso qualche anno fa. Riaffidiamoci ai suoi ricordi, che ormai sono testimonianza storica, per raccontare la cronaca gli eventi: “Tremila fra poliziotti e uomini della Stasi spalleggiati dalla consueta batteria antisommossa, cani, idranti, carri armati e camion con barriere di sbarramento stazionavano in città. Dagli ospedali arrivavano notizie drammatiche, personale rafforzato per il turno notturno, interi reparti sgomberati, riserve di sangue accatastate. C’era una tensione fortissima ma anche una speranza: senza violenza ce l’avremmo potuta fare”. Un’ossessione gandhiana: “Keine Gewahlt, nessuna violenza, è stata quella la scelta vincente. La polizia era preparata a tutto ma non alle candele e alle preghiere”, sottolineava Führer, che era pur sempre un uomo di chiesa.

Alle cinque della sera l’atmosfera è di quelle campali. Un confronto sul modello degli epici scontri della storia. Una città, con le sue strade, le sue piazze, i suoi boulevard come campo di battaglia. E due eserciti schierati, il popolo da un lato, lo Stato impersonato dalle forze di sicurezza dall’altro, intente a studiarsi, controllarsi e ogni tanto a guardarsi negli occhi. Un confronto impari per numeri e mezzi: ma se gli ultimi erano a favore della polizia, i primi erano a vantaggio dei manifestanti. Alla Nikolaikirche si aggiunge anche la Thomaskirche, all’altro capo del centro storico. Irmtraut Hollitzer è la madre di tre ragazzi, ha rinunciato a una carriera da solista perché non voleva aderire all’Fdj, l’organizzazione dei giovani comunisti. Per lei la famiglia è diventata tutta la sua vita. Vuole cambiare le cose ma ha paura: “Si respirava un clima da resa dei conti, un’incertezza carica di angoscia. Ho avuto paura e dopo la preghiera sono tornata a casa”. Due mesi dopo si unirà al gruppo che occuperà la sede della Stasi, la Runde Ecke, e negli anni successivi illustrerà gli orrori del servizio segreto agli studenti in visita alle stanze di quella fortezza trasformata in museo.

Ma riprendiamo la traccia di Führer. “Quando alla fine della preghiera i duemila partecipanti uscirono dalla Nikolaikirche, le fiaccole cominciarono a illuminare la notte scura e in qualche modo allentarono la tensione. La sfida era iniziata e si giocava su un sottile piano psicologico. Ci ripetevamo: nessuna violenza, è il messaggio di Gesù. E nessuna violenza fu, da un lato e dall’altro”. Un miracolo, il miracolo di Lipsia.

“In realtà il problema fu che il sistema di comando della Ddr era fortemente centralizzato”, spiega ora che le dinamiche sono più comprensibili Klaus Schröder, lo storico della Freie Universität di Berlino che con i suoi studi ha riacceso la polemica sulla memoria della Ddr nella Germania riunificata “e la polizia di Lipsia attendeva ordini direttamente da Berlino est”. Dal centro i telefoni però tacciono. Il primo segretario della Sed locale, Helmut Hackenberg, aspetta inutilmente un segnale da Egon Krenz, il nuovo uomo forte (si fa per dire) del regime che pochi giorni dopo subentrerà a Erich Honecker come ultimo segretario generale della Sed, il partito comunista tedesco-orientale. Ma il segnale non arriva, solo silenzio.

Intanto in strada gli eventi evolvono. Sempre il ricordo di Führer: “C’è un momento che non dimenticherò mai. Quando aprimmo il portone della chiesa per uscire in strada c’erano decine di migliaia di persone. Sembrava che l’intera Lipsia si fosse data appuntamento lì fuori. Man mano che il corteo procedeva, da ogni angolo spuntavano manifestanti. Imboccato il Ring, l’anello stradale che circonda il centro cittadino, eravamo diventati settantamila: era la più grande manifestazione nella Ddr dai tempi della rivolta di Berlino est nel 1953”.

Ancora anni dopo Egon Krenz puntava sulle vicende di quella notte per costruire la propria autodifesa: “Potevo dare l’ordine di attaccare ma non l’ho dato. Ho sempre pensato che la situazione non dovesse essere risolta con le armi, se anche i manifestanti avessero rinunciato alla violenza”. Schröder è più caustico: “Non diedero nessun ordine perché temevano che i poliziotti non avrebbero obbedito. Krenz pensava solo a far fuori Honecker”.

Pochi giorni fa la città di Lipsia ha celebrato i trentacinque anni del suo 9 ottobre. Tutto quel che è accaduto dopo, a Berlino come a Praga, a Bucarest come a Tallin, Vilnius o Riga, è stato possibile grazie a quella sera d’autunno sassone e all’esempio dei settantamila che sfilarono pacificamente lungo il Ring di Lipsia, scandendo slogan che segnarono una svolta nella storia europea. Tra i tanti, “Wir sind das Volk“, noi siamo il popolo, cambiò la percezione di quel che stava accadendo. I cittadini non avevano più paura, lo Stato aveva perduto il principale strumento a disposizione per frenare gli eventi. Non solo una Tienanmen era impossibile nel cuore dell’Europa, ma anche una riedizione del 1956 di Budapest o del 1968 di Praga. Mosca non assicurava più copertura internazionale, nel tracollo dell’intero blocco comunista era cominciato il “si salvi chi può”, ognuno per sé.

Il popolo di Lipsia trasmise il messaggio decisivo al resto del paese e agli altri popoli dell’est che ancora faticavano a trovare la strada per la libertà. Quel concetto evanescente di popolo si stava trasformando in una forza irresistibile che avrebbe travolto tutto. Se i cambi di regime in Polonia e Ungheria erano stati guidati mesi prima da tavole rotonde e compromessi politici, altrove sarebbero stati i cittadini a dare la spallata finale. Più a nord, a Berlino, il muro era apparentemente ancora in piedi, con le sue torrette, le fotoelettriche e i soldatini con i fucili a tracollo. In realtà una larga porzione era già venuta giù, tanto forte era l’eco di Lipsia.

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