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Legge Elettorale Italia

Come sta davvero l’Italia (al di là della propaganda politica)

Il commento di Marino Longoni, condirettore del quotidiano Italia Oggi Probabilmente non c’è mai stato uno scollamento così ampio tra dibattito politico e Paese reale. Mentre in televisione e sui social network si dibatte di reddito di cittadinanza, e questo crea le code agli sportelli dei Caf, il Paese reale (grazie anche alle riforme che…

Probabilmente non c’è mai stato uno scollamento così ampio tra dibattito politico e Paese reale. Mentre in televisione e sui social network si dibatte di reddito di cittadinanza, e questo crea le code agli sportelli dei Caf, il Paese reale (grazie anche alle riforme che i politici promettono di abolire) sta cominciando a scrollarsi di dosso i postumi di una delle più lunghe e pesanti crisi della sua storia. Non sono pochi gli indicatori economici resi noti negli ultimi giorni che vanno in questa direzione. Cominciamo dai dati sulla previdenza, raccolti dal Centro studi Itinerari previdenziali: per la prima volta dopo molti anni è leggermente diminuito, invece di aumentare, il deficit dell’Inps e il tasso di disoccupazione è sceso ai livelli pre crisi. Grazie alla favorevole congiuntura internazionale, certo, ma anche grazie alle riforme lacrime e sangue approvate negli anni scorsi, soprattutto legge Fornero e Jobs act. La spesa pensionistica del 2016 si è infatti ridotta di 211 milioni rispetto all’anno precedente (0,08%) mentre le entrate contributive sono aumentate di 5,18 miliardi (2,5%). Il saldo resta negativo per quasi 60 miliardi, ma il trend si è invertito. Il tallone d’Achille del sistema previdenziale è però l’inverno demografico, che a metà di questo secolo farà crescere il numero della popolazione anziana (gli ultrasessantaquattrenni) di 6 milioni, dall’attuale 22% si passerà al 34%, con effetti sociali, politici ed economici difficili da prevedere. Ma certo con effetti negativi sui bilanci degli enti di previdenza.

Invece di concentrarsi su questi problemi la politica sembra irresistibilmente attratta da temi futili come quello dei vitalizi dei politici, una posta che nel 2016 valeva 1.346 milioni di euro (in diminuzione di 50 milioni rispetto all’anno prima), cioè lo 0,5% del totale delle uscite previdenziali (a fronte di versamenti contributivi che, in tutto o in parte, sono comunque stati effettuati): in questo caso l’unica vera anomalia è che quasi la metà di questo costo è causato dalla regione Sicilia.

Anche da un’altra analisi, quella di Euler Hermes emergono dati confortanti sull’attuale situazione economica. Si prevede infatti una crescita del pil dell’1,4% per il 2018 e dell’1,2% nel ’19. Migliorano anche le condizioni di pagamento (-38% di mancati pagamenti rispetto al 2013), le insolvenze si riducono e i tempi di incasso sono scesi a 85 giorni. Inoltre hanno ripreso a crescere gli investimenti del settore privato e la riduzione della spesa pubblica ha fatto registrare qualche modesto, ma pur importante, risultato. A livelli record anche il tasso di fiducia dichiarato dalle imprese. Tutto ciò è l’effetto in primo luogo di una congiuntura internazionale favorevole, ma non sarebbe stato possibile senza le riforme realizzate negli anni più duri della crisi, a cominciare dal piano industria 4.0 e da quello sulla banda ultralarga, senza dimenticare la riforma del mercato del lavoro, il Jobs act, e le varie riforme della giustizia. Restano ancora da realizzare invece la riforma degli appalti e quella sulle crisi aziendali (ma non è detto che le deleghe, in quest’ultimo caso, saranno esercitate).

Rimane tuttavia un Paese ancora ostaggio di fragilità politiche interne ed esterne. Basti pensare ai rischi che potrebbero derivare dall’incapacità di costituire, dopo le elezioni del 4 marzo, un esecutivo con un minimo di stabilità, oppure dalla riduzione del Quantitative Easing della Bce. Per non parlare delle pulsioni antieuropee, mai così forti come nel parlamento appena eletto, dove il 55% dei parlamentari è molto critico nei confronti dell’euro o dell’Unione europea.

E tuttavia il Paese reale va avanti. Lo dimostra, da ultimo, l’accordo sulla rappresentatività sottoscritto venerdì scorso tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, che per la prima volta dopo tanti anni vede la firma congiunta dei tre più importanti sindacati su un documento importante. Non è detto che sia la fine delle pulsioni irrazionali o del velleitarismo sindacale, ma è comunque un passo importante verso la ricostruzione di relazioni sindacali più ragionevoli. Il Paese c’è: è la sua rappresentazione politica che non sembra all’altezza.

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