Neanche una settimana nella nuova decade e i mercati sono già sull’altalena. La notizia che ha colpito il mondo è sicuramente l’azione militare con cui gli Usa hanno ucciso il generale Qasem Soleimani. Soleimani era un alto ufficiale iraniano, regista della strategia politica e militare di Teheran nel Medio Oriente e figura estremamente popolare, non solo in Iran.
L’escalation è stata una vampata: il 27 dicembre una base militare irachena, in cui operavano contractor americani, è stata attaccata con dei razzi da un gruppo paramilitare riferibile all’Iran. Nell’attacco – da quanto riportato dalle autorità americane – ha perso la vita un cittadino americano e numerosi altri sarebbero rimasti feriti (negli ultimi sei mesi gli attacchi a persone e strutture americane sono stati oltre 10).
In risposta, il 29 dicembre gli Stati Uniti hanno colpito con degli attacchi aerei in Siria, Iraq e Libano alcune formazioni paramilitari appoggiate dall’Iran. Il primo gennaio alcune migliaia di persone hanno accerchiato in protesta l’ambasciata americana di Baghdad. Infine, l’attacco aereo della settimana vicino a un aeroporto di Baghdad, in cui un drone Usa ha colpito il convoglio in cui viaggiava il generale Soleimani identificato come il regista delle operazioni militari “per procura” (ovvero messe in atto supportando formazioni paramilitari terze) di cui viene accusato il regime di Teheran.
L’escalation ha colto di sorpresa i mercati finanziari che hanno inizialmente reagito con perdite generalizzate (poi in parte recuperate prima della chiusura), mentre il petrolio si è apprezzato di oltre il 4% sulla scia di timori su possibili ripercussioni lato offerta.
Lasciando da parte valutazioni del contesto geopolitico in cui è maturato il conflitto e giudizi morali che non ci competono in questa sede, è importante provare a capire quali sono le effettive possibilità di un’escalation armata, visto che le relazioni tra Usa e Iran sono ormai da mesi ai minimi storici.
Negli ultimi anni molti osservatori hanno criticato la Casa Bianca per la mancanza di una strategia precisa per quanto riguarda il Medio Oriente. In realtà, l’azione americana sembra essere stata improntata, almeno fino ad ora, da alcune caratteristiche distintive, sia da un punto di vista strategico sia da un punto di vista operativo. In continuità con quanto stabilito dall’amministrazione Obama, Trump ha, almeno a parole e nelle intenzioni, predicato la politica del disimpegno diretto, cercando di evitare per quanto possibile il coinvolgimento con un gran numero di truppe sul campo e favorire un maggior protagonismo degli alleati. Tuttavia, a differenza dell’amministrazione precedente, ha individuando in modo chiaro l’Iran come una minaccia con cui non è utile dialogare. In breve tempo Trump ha recesso dall’accordo di non-proliferazione nucleare firmato dal suo predecessore e ristabilito le sanzioni economiche verso Teheran.
Un’altra caratteristica della politica estera di Trump è stata quella di non avere paura di agire con azioni mirate anche molto decise in casi di escalation come deterrente. Una sorta di escalation ‘controllata’ dei conflitti con l’obiettivo di mostrarsi pronto a ogni soluzione e scoraggiare ulteriori azioni da parte dei propri avversari. Questa strategia di “escalation controllata” è molto rischiosa (e crea una buona dose di incertezza) ma ha funzionato, anche con una certa efficacia, contro la Nord Corea e contro Assad in Siria.
Lo scontro con l’Iran potrebbe avere obiettivi, o perlomeno esiti, diversi. L’azione questa volta va a colpire direttamente una delle figure più importanti dell’establishment di un Paese sovrano, ostile all’occidente ma non in aperto conflitto con esso.
Ragionevolmente l’Iran prenderà delle contromisure anche se al momento l’amministrazione Usa continua a ritenere che non sia nell’interesse di Teheran scatenare un conflitto armato su larga scala. Prevedibilmente l’Iran coglierà l’occasione per accrescere la propria influenza in Paesi confinanti, ma in questo momento è complesso da prevedere.
Le truppe americane si stanno, comunque, mobilitando per prepararsi ad ogni evenienza e Trump ha già annunciato una reazione “sproporzionata”, restando fedele al suo approccio. La situazione resta fluida e aperta a molteplici possibilità, non necessariamente si risolverà nelle prossime ore, ma potrebbe restare un tema ricorrente anche per i mercati nei prossimi mesi.
PACE COMMERCIALE?
La crisi in Medio Oriente non è l’unica notizia ad aver condizionato l’andamento dei mercati negli ultimi giorni. Poco prima della fine dell’anno Usa e Cina hanno annunciato la firma di un nuovo accordo commerciale il 15 gennaio. L’accordo pone un freno all’escalation della guerra dei dazi, almeno nel breve termine. Come abbiamo avuto modo di sottolineare negli scorsi mesi, una soluzione di questo tipo, per quanto temporanea, era il naturale approdo della dialettica degli ultimi mesi, almeno fino alla data delle prossime elezioni che forniscono un incentivo (per Trump) per spingere ulteriormente la situazione. Meno chiaro se esso costituirà la base per uno smantellamento delle tariffe impostate nell’ultimo anno. Nell’immediato questa ipotesi sembra tutt’altro che scontata.
POLITICA ESPANSIVE IN CINA?
Proprio dalla Cina è arrivata un’altra notizia che ha rasserenato i mercati. Il governo di Pechino, attraverso la Banca Centrale, ha operato una forte ricapitalizzazione del sistema bancario, per sostenere l’economia che sta crescendo ai tassi di crescita più bassi degli ultimi 30 anni. La mossa è arrivata inaspettata e potrebbe preludere a un ulteriore diminuzione dei tassi di riferimento da qui a fine anno. La notizia – insieme alla schiarita sulle tensioni commerciali – aveva dato ulteriore spinta ai mercati azionari che il 2 gennaio avevano raggiunto i massimi storici.
ECONOMIA EUROPEA IN RIPRESA?
Intanto, dalle economie più avanzate d’Europa, arrivano notizie di ripresa. Il mercato del lavoro tedesco, nel 2019, ha fatto registrare un anno da record, nonostante la crescita economica sottotono: la locomotiva d’Europa ha creato quasi 500mila posti di lavoro, con salari reali in crescita. Degno di nota è il fatto che solo il 15% di questi posti di lavoro è arrivato dal comparto industriale, sintomo di un’economia molto dinamica capace di creare posti di lavoro di qualità anche nel settore dei servizi. Questi dati sono un segnale della maturità del ciclo economico in Germania e ciò potrebbe avere una ripercussione sul livello dei prezzi per l’anno nuovo.
A dicembre, infatti, l’inflazione ha sorpreso in positivo sia in Francia sia in Germania. Questa potrebbe non essere una buona notizia per i mercati a causa degli effetti avversi che un’inflazione sopra le aspettative potrebbe avere sulla direzione della politica monetaria che, per adesso, rimane un fattore decisivo e positivo per l’andamento dei mercati.
In generale, se l’equilibrio si mantenesse, le asset class europee potrebbero avere quest’anno la possibilità di recuperare parte di quanto hanno pagato negli ultimi anni rispetto a quella americana. Non bisogna però sottovalutare i molti elementi di incertezza: il quadro politico rimane instabile, gli ultimi dati dell’Eurobarometro mostrano come la fiducia dei cittadini europei verso l’Ue sia ai minimi storici, anche in Paesi fondatori come la Francia (interessata da diffuse proteste contro la riforma delle pensioni) e l’Italia. La debolezza dell’Ue, di certo, non è un presupposto positivo alla vigilia del divorzio del Regno Unito e di un lungo negoziato che sarà guardato con attenzione da tutti gli euroscettici che continuano a crescere in ogni parte del continente.
Insomma, dopo un anno (e un decennio) da record per i mercati finanziari il 2020 si è aperto all’insegna della preoccupazione per questioni vecchie e nuovi: in un contesto economico che comunque sembra in miglioramento.