A inizio Novecento, l’inglese Sir Halford Mackinder presentò la sua – ai tempi audace – teoria secondo cui la conquista dell’area tra i territori semi deserti dell’Asia Centrale, il mar Caspio e l’Europa dell’Est avrebbe garantito il controllo sull’isola Mondo, la massa continentale che si estende da Lisbona a Vladivostok a Cape Town. Ma ci sono voluti cento anni perché gli occhi dell’impero si spostassero finalmente sull’Eurasia. Oggi, anche la Cina sta provando a estendere la propria area di influenza lungo il tracciato della Via della Seta, un territorio che da Pechino si estende fino al bacino del Mediterraneo, attraverso un piano infrastrutturale fatto di investimenti esteri diretti come non si vedeva dai tempi del Piano Marshall. Un progetto di mondo che coinvolge più di ottanta Paesi e sembra essere la partita fondamentale per stabilire la futura evoluzione dei rapporti politici globali.
TENSIONI COMMERCIALI
È proprio questa partita, intorno alla supremazia tecnologica e politica, che sta giocando Donald Trump impegnato in una complessa battaglia per individuare un nuovo equilibrio nei rapporti commerciali tra i due Paesi. La sfida, che è al centro dell’attenzione dei mercati preoccupati per gli effetti di essa sul Pil mondiale, è caratterizzata dall’incrocio, talvolta equivoco, di dinamiche di breve termine e tendenze di lungo periodo. Da una parte c’è la lungimiranza cinese, dall’altra il più complesso interesse americano che risiede nel demarcare le nuove aree di influenza nel mondo, ma anche nel produrre risultati politici ed economici spendibili nell’immediato. Da un lato c’è un salutare riequilibrio, voluto da Trump, delle catene del valore del commercio mondiale, verso un posizionamento che potremmo anche definire più equo. Dall’altro ci sono le preoccupazioni molto più immediate dei mercati e di interi settori economici per l’effetto recessivo e l’imprevedibilità dei dazi.
Donald Trump, dopo il G20 di Osaka in cui ha raggiunto una momentanea tregua sulla disputa commerciale, ha proclamato vittoria su Twitter: “Abbiamo vinto! Anche se non abbiamo avuto nessun sostegno dalla FED, abbiamo vinto perché abbiamo un’economia seconda a quella di nessuno”.
Neanche il Presidente Usa, impegnato in quella che evidentemente ritiene una battaglia strategica secolare, può credere di aver già portato a casa la partita. Ma allo stesso tempo non può ignorare le elezioni che si avvicinano, un rischio di recessione da scongiurare in tutti i modi possibili e un mercato finanziario che si innervosisce a ogni sterzata spericolata che imprime alla politica commerciale.
E così una tregua – che porta in dote una temporanea marcia indietro sul prossimo round di sanzioni e la soluzione del caso Huawei – basta per dichiarare vittoria e basta ai mercati per riprendersi con grande forza dalla scivolata di maggio, supportati dalla politica monetaria.
ANCORA UN TRIMESTRE POSITIVO
Nell’ultimo trimestre quasi tutti gli asset rischiosi sono scivolati a maggio per poi recuperare terreno a giugno, regalando agli investitori il secondo trimestre consecutivo di risultati positivi e il miglior semestre da qualche anno a questa parte.
Oltre al commercio, al centro dell’attenzione è stata ovviamente l’altra grande protagonista di questa fase: la politica monetaria.
Le notizie economiche che suggeriscono un peggioramento delle aspettative sono state trasformate in buone notizie per gli investitori dalle banche centrali. Negli Stati Uniti le dinamiche recessive hanno colpito alcuni settori come il commercio e l’industria, ma la frenata è stata più che compensata dalla crescita di beni di consumo e servizi.
In questo scenario la FED ha come interesse primario quello di evitare una recessione. Gli investitori sembrano convinti che la politica della banca centrale sarà accomodante e hanno già scontato un taglio dei tassi nel meeting di luglio. I mercati hanno festeggiato il cambio delle aspettative con un rally che ha portato in positivo le prestazioni dei portafogli.
Se l’iniziativa nel prossimo mese sembra ormai molto probabile, più incerta resta la strada da qui in avanti con i mercati che si orientano verso due ulteriori ribassi dei tassi. Se così fosse, i tagli per il 2019 diventerebbero tre, un cambio di rotta piuttosto repentino se si pensa ai quattro rialzi del 2018 nel contesto di una situazione generale sicuramente migliore ma in fondo non molto diversa. Il rischio di sorpresa negativa su questo fronte resta dunque in agguato e le aspettative degli operatori sulla politica monetaria americana sono uno dei fattori chiave per i prossimi mesi, considerata anche la volatilità che un mutamento di esse può portare sul mercato.
Un altro alleato degli investitori è stato Mario Draghi che, durante il consueto appuntamento di Sintra, ha rassicurato i mercati sul punto di vista della Bce. Il contesto di bassa crescita e ridotta inflazione nell’Eurozona sembra essere diventata la nuova normalità. La Banca Centrale Europea ne è conscia ed è pronta a intervenire con ulteriori politiche espansive dell’economia. Con il livello dei tassi a zero, l’unica opzione che resta sul tavolo è quella di riprendere in mano strumenti non convenzionali, come l’acquisto diretto di titoli. Questa eventualità rassicura parecchio gli investitori.
IL QUADRO ECONOMICO
Il quadro macroeconomico negli Stati Uniti è sostenuto su un delicatissimo equilibrio. I dati solidi del secondo trimestre allontanano lo spettro di una recessione. Un livello di crescita costante, accompagnata da una politica monetaria che non fa mancare il proprio apporto di liquidità al sistema, è sulla carta lo scenario ideale per gli investitori. La campagna elettorale si avvicina e Trump farà quanto in suo potere per sostenere l’economia in vista della scadenza del voto. Anche la Fed ha trasmesso ai mercati negli ultimi mesi un senso di sicurezza, intervenendo con salutare attivismo ogni volta chei mercati azionari sono calati.
L’ultimo trimestre ci ricorda dunque come l’equilibrio di mercato resti particolarmente delicato. In questo contesto gli asset rischiosi hanno avuto ancora modo di regalare soddisfazioni agli investitori.
Nonostante ciò, i risultati molto positivi di questa prima metà dell’anno mal celano il nervosismo dei mercati, che si è manifestato con forza a maggio quando il pessimismo nei confronti delle relazioni commerciali tra Cina e Usa ha portato molta volatilità sui listini. Gli investitori sembrano comunque in attesa di un catalizzatore che possa far scattare l’eventuale correzione: c’è da aspettarsi che i nervi dei mercati saranno ancora testati nei prossimi mesi.
Rivolgendo lo sguardo un po’ più avanti, un motivo di preoccupazione arriva sul fronte dei risultati societari: nonostante le aspettative più basse, la produttività è in calo e – anche a causa di un mercato del lavoro che ha raggiunto ormai da tempo il livello di piena occupazione – i costi di produzione sono in aumento. Se il trend dovesse continuare, assisteremmo a un peggioramento degli utili nei prossimi trimestri, il che potrebbe catalizzare le preoccupazioni degli investitori. Il comitato investimenti di Moneyfarm continua dunque a pensare che l’approccio conservativo adottato in questi mesi sia la scelta migliore per proteggere il capitale degli investitori.