NIENTE ACCORDO SULLA WEB TAX
E così quel tanto di unità che sembrava faticosamente raggiunta sulla tassazione delle imprese digitali è stata rimandata a data da destinarsi. Il Consiglio Ecofin del 12 marzo è semplicemente stato costretto, nei fatti, a prendere atto che non vi è convergenza fra i 28 paesi neppure su una versione ridottissima di web tax europea. L’ultima versione su cui è stata tentata una mediazione dal commissario Pierre Moscovici prevedeva, infatti, la restrizione del campo di applicazione della web tax alle sole prestazioni di carattere pubblicitario. Un po’ troppo poco. Se ne riparlerà nel 2020, anche se Francia e Italia hanno ribadito che andranno avanti per conto proprio.
La conclusione negativa, però, non sorprende più di tanto. Le proposte di direttive varate nel marzo 2018 apparivano, infatti, da un lato davvero coraggiose, cimentandosi con una tematica assai scabrosa qual è quella della ridefinizione del concetto di stabile organizzazione. Dall’altro, prospettavano, ma solo come estremo rimedio, l’adozione di una soluzione rozza ma, si supponeva, efficace ancorché passeggera (non a caso battezzata “Interim Web Tax”). Considerata l’apparente imminenza della sua introduzione, il dibattito si è concentrato sulla seconda proposta. Della cui efficacia, però, si è da subito dubitato. Certamente, trovava il suo fondamento nel ruolo particolare assunto dagli utenti nell’offrire (gratis) la materia prima (i dati) da elaborare e trasformare in ricchezza solo per coloro che questa grande massa di dati (big data) è in grado di mettere a frutto con i grandi numeri diffusivi e con la enorme pluralità di circuiti in cui gli stessi possono essere sfruttati. Ma basare l’imposta sul ruolo degli utenti di un certo servizio – sia per definirne la territorialità che la tipologia di consumo – era atto del tutto innovativo e, quindi, non facile da definire e normare in un contesto, per di più, multinazionale com’è l’Unione quando si parla di imposte diverse da quelle sui consumi.
TUTTO RUOTA INTORNO ALLA STABILE ORGANIZZAZIONE
Concentrata la discussione sulla Interim Web Tax, si è lasciata un po’ in disparte la seconda proposta, quella riferita all’adeguamento del concetto di stabile organizzazione alla economia del web.
Le imprese digitali non pagano imposte nei paesi da cui prelevano ricchezza perché – essendo residenti altrove – non hanno ivi una collocazione fisica (una stabile organizzazione): questo è il cuore della questione. Sennonché le modifiche proposte sono, purtroppo, di assai dubbia efficacia. Certamente assolvono la funzione di rendere almeno identificabile, con relativa facilità, l’esistenza di una stabile organizzazione “virtuale” (cioè non fisica). Ma rischiano di rivelarsi improduttive sui meccanismi identificativi del reddito imponibile.
Posto che l’esistenza di una stabile organizzazione di un soggetto residente (e tassabile) in un altro paese serve a ripartire il diritto a tassare fra stato di residenza e stato della fonte (cioè di produzione del reddito) e che detta ripartizione va fatta in funzione del concorso di ciascun paese alla creazione del valore del prodotto, la domanda cui si deve rispondere diventa: dove si crea la ricchezza “digitale”? Nel paese in cui si produce la tecnologia (leggasi algoritmi) o in quello da cui derivano i dati da sottoporre a trattamento? Quanto vale il singolo mercato nazionale – cioè un sistema paese le cui reti, ma anche il cui livello di istruzione, consentono l’operatività della web economy – ai fini della formazione della catena del valore? Si tratta di elementi la cui identificazione non può essere lasciata (leggasi: scaricata) sulle singole amministrazioni finanziarie contando sui meccanismi di determinazione del cosiddetto valore normale di beni e servizi (transfer pricing). Su questi argomenti va semplicemente negoziato un accordo commerciale interstatuale. Meglio se comincia l’Unione europea al suo interno e poi porta la questione, in questi termini, al tavolo Ocse.
Da notare che vi sono già alcuni presupposti tecnici per procedere su questa via. Basti pensare alla proposta di direttiva Ccctb (Common Consolidated Corporate Tax Base) – peraltro anch’essa non ancora definitivamente approvata – che prevede un criterio di allocazione della base imponibile fra i vari stati membri in base a parametri oggettivi diversi dal profitto, quali fatturato, valore degli asset, costo del lavoro e una certa valutazione convenzionale dei beni intangibili. Certo il tavolo Ocse è ben più spigoloso ed è più che probabile che gli Stati Uniti spingerebbero per una supervalutazione del valore creato con gli algoritmi e tenderebbero a minimizzare tanto il valore dei dati di base quanto quello dei sistemi paese. Ma, pur scontando realisticamente rapporti di forza non favorevoli all’Unione, quella è la strada.
Articolo pubblicato su lavoce.info