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evoluzione tecnologica

Sì alla tecnologia, ma non sostituiamo il tablet al cervello

Come ci ricordano molti scienziati e filosofi, dobbiamo essere grati all'evoluzione tecnologica ma attenti a non traslare a poco a poco dalla mente a un oggetto la facoltà di pensare, scegliere, decidere. L'articolo di Francesco Provinciali

 

Ciò che emerge da una rilettura dei Pensieri di Blaise Pascal, oltre allo stupore suscitato dalla sua intelligenza poliedrica (fu matematico, fisico, filosofo, teologo) e dalle intuizioni ermeneutico-interpretative maturate nella sua breve, intensa esistenza è la domanda ricorrente sul “senso della vita”.

Smontando la granitica certezza cartesiana del “cogito ergo sum”, Pascal valorizzò la dimensione del pensiero divergente accostando all’esprit de geometrie l’esprit de finesse. A ben rifletterci – siamo nel XVII secolo – inizia con lui il tema della problematizzazione filosofica della vita così come si è sviluppata nell’’800 e nel ‘900 ed è giunta fino ai nostri giorni, nel post moderno, post ideologico, e post globale.

L’esistenza umana genera più problemi che certezze nell’eterno presente mentre l’esplorazione del futuro non è fatto che riguardi solo la scienza: nelle pieghe dei suoi risvolti antropologici e nelle cavità carsiche dei suoi impliciti individuali e sociali c’è spazio per ogni aspetto della cultura, dell’etica dei comportamenti, della produzione del pensiero. Se accostiamo la problematizzazione del vivere alla certezza della dimensione razionale che insegue soluzioni codificabili cogliamo ad esempio il passaggio Kantiano dal fuori al dentro di noi, la cosmologia ineffabile di Leopardi, la dialettica Hegeliana che è forse il passaggio culturale più caratterizzante e significativo della civiltà occidentale, ciò che rende – ad onor del vero – irto e denso di difficoltà il conclamato percorso dell’integrazione con le radicate concezioni totalizzanti e dogmatiche di altre civiltà. E se, saltando in avanti di due secoli e guardandoli adesso a ritroso, consideriamo i due autori di romanzi distopici più famosi del ‘900, George Orwell e Aldous Huxley e le loro opere più note (1984 per il primo, Il mondo nuovo e Ritorno al mondo nuovo per il secondo) cogliamo alcuni temi esponenziali delle derive culturali di oggi: le incertezze e le angosce del presente, le incognite e le paure del futuro, l’omologazione del pensiero, la perdita delle libertà individuali, lo spaesamento di fronte a un mondo globale e inafferrabile, le solitudini esistenziali, la ricerca di approdi che evitino i pericoli di naufragi apocalittici e incombenti, il senso della vita: l’incipit da cui Pascal era partito rendendosi conto che scienza e tecnica non risolvono da sole la congerie dei problemi umani.

Solo che la libertà del pensiero divergente rispetto ai vincoli e agli algoritmi delle certezze razionali può generare distonie laceranti e conflitti interiori latenti.

Che sia codificato da regole vincolanti o gestito da poteri forti e omologanti, il futuro si appalesa sempre come luogo dell’incerto e dell’indeterminato. Solo una mente esplorativa e capace di organizzare e descrivere la realtà mutuandola dall’osservazione e dalla immaginazione romanzesca come quella di Zygmunt Bauman poteva far ordine e riportare a sintesi i grandi temi del nostro tempo.

Ma sullo sfondo, quell’intuizione di accostare alla logica “il conoscere della mano sinistra” (come l’avrebbe definito tre secoli dopo Jerome Bruner) del mite e introverso Pascal ha introdotto un tema che si è fatto essenziale dall’epoca dei lumi in poi e che riguarda, appunto, il senso dell’esistere e la sua direzione di marcia. E così oggi, in questo eterno presente senza sbocchi risolutivi ai grandi problemi dell’umanità, denso di conflitti, astioso ed effimero, rancoroso ed individualista possiamo meglio comprendere – partendo proprio dalla distinzione di Pascal – perché mai un grande filosofo come Heidegger abbia intuito che il prevalere del pensiero calcolante ci porti inevitabilmente prima o poi a fare i conti con noi stessi.

La logica degli interessi e del cambiamento spacciato per progresso, l’introduzione massiccia della tecnica e poi della tecnologia nella nostra vita sta mutando inesorabilmente i nostri orizzonti vitali verso una dimensione speculativa dell’esistenza: si fa e si progetta solo ciò che diventa utile, produce profitto, per cui la bramosia del possesso e la conquista e l’uso di ogni angolo del pianeta ci gratifica assai più della gratuità di un gesto libero.

In questa dimensione riesce difficile pensare a concetti come il bene comune, mentre pace e libertà sono sempre valutate da soggettivi punti di vista. Poiché l’invadenza della tecnologia e del prodotto che sostituisce il pensiero ha oggi dimensioni di possesso totalizzanti.

Come giustamente osservano Severino e Galimberti la scienza persegue il progresso ma la mente umana, la psiche non riescono ad adattarsi a starle dietro. Qual è allora il vero pericolo di questa deriva? Che gli oggetti d’uso, gli strumenti che la tecnologia produce e il concentrarsi stesso di tutti gli sforzi in un continuo superamento di ciò di cui possiamo già ora disporre creino una sorta di obsolescenza del pensiero pensante (della facoltà e capacità di pensare) sul pensiero pensato (il prodotto confezionato che sostituisce il pensiero).

Ormai la tecnocrazia domina le abitudini e i comportamenti dell’uomo.

In un interessante libro intitolato L’uomo con il cervello in tasca, Vittorino Andreoli considera come sia più agevole, veloce e disponibile utilizzare uno smartphone o un tablet per trovare la soluzione ad ogni problema della vita quotidiana, piuttosto che affidarsi ad un ragionamento, ad un processo mentale.

Il rischio è di traslare a poco a poco dalla mente ad un oggetto la facoltà di pensare, scegliere, decidere.

Non c’è solo una valenza utilitaristica in questa prassi (ciò che la renderebbe giustificabile): poiché essa diventa modo per passare il tempo, ciò che proprio Pascal chiamava divertissement, una cosa fine a se stessa. Si pensi al dominio sugli uomini che può esercitare chi detiene il potere di gestire su scala mondiale la costruzione e la finalizzazione di questi strumenti tecnologici, orientando ed omologando i pensieri-pensati dominanti. Dobbiamo proprio ad Orwell la definizione di “grande fratello”, una sorta di dittatore delle menti che attraverso regole e gerarchie finisce per dominare il mondo mediante i comportamenti della vita domestica e relazionale, preordinandoli e finalizzandoli secondo un’etica che espunge democrazia e libertà.

Ora noi dobbiamo una immensa gratitudine alla scienza, all’evoluzione tecnologica, agli enormi vantaggi che hanno prodotto nella vita dell’uomo. Si pensi alla medicina, all’ingegneria, alle comunicazioni: tutto mira al miglioramento delle condizioni di vita, come vincere una malattia, come costruire un ponte sicuro, come sveltire la burocrazia, come mettere in contatto le persone in ogni angolo del pianeta.

Il problema comincia quando questa virtualità positiva genera azioni coatte, quando la scienza non è più neutra ma posta al servizio di finalità recondite che valicano i concetti dell’etica condivisa e generano legami insolubili tra la persona e l’oggetto.

Chi si occupa di educazione e formazione sa quanto sia utile disporre di dotazioni sempre più avanzate che facilitino la conoscenza. Tutti, però, si stanno capacitando dei danni enormi che la digitalizzazione degli apprendimenti e l’ingresso in quell’universo sconosciuto racchiuso in una scatoletta di plastica possono generare. La dicotomia fondamentale riguarda la scissione tra la vita reale e quella virtuale, il loro continuo interconnettersi, l’incapacità per i giovani (e gli adulti) di interrompere flussi di conoscenze e passaggi di dati che possono incidere sui comportamenti della vita di tutti i giorni, fino a confondere il gioco con la simulazione, la prossimità reale con quella immaginifica, la percezione del dominio di sé e delle cose.

Quanti giochi pericolosi passano in rete? Quali conoscenze imperscrutabili attendono i navigatori del web al varco del lecito e del pericolo senza ritorno?

Si sente discettare con una disinvoltura disarmante della necessità di digitalizzare non solo la congerie dei servizi pubblici, in funzione di una migliore fruizione e percepibile utilità, ma – ad esempio – tutti i processi di apprendimento, dimenticando che la vera cultura richiede una lenta ed avvertita metabolizzazione di ciò che si impara, affinché ne resti traccia nella mente e nel cuore piuttosto che in un tablet.

Andiamoci piano, lento pede. Cerchiamo di approfondire e mantenere la conoscenza del soggetto (la persona, l’alunno) oltre che migliorare le caratteristiche tecniche dell’oggetto.

Colpisce la leggerezza con cui la politica asseconda certe tendenze di mercato senza valutarne le conseguenze sui processi di crescita e di sviluppo dei bambini e dei ragazzi che apprendono.

Ma poiché essi imparano soprattutto per induzione e attraverso gli esempi degli adulti occorre rivedere tutto il processo di digitalizzazione pervasiva che spesso semplifica, a volte complica la nostra vita.

Pensiamo ad esempio agli anziani: una generazione che – in un Paese in calo demografico – assume le sembianze di una maggioranza silente o silenziosa.

Quanti di loro saprebbero utilizzare strumenti di cui per tutta la vita hanno ignorato l’esistenza semplicemente perché non esistevano?

Questi aspetti anche umani non vengono quasi mai considerati, generando di fatto processi di marginalizzazione generazionale.

Da alcuni anni il tema del “Metaverso” (termine coniato nel 1992 da Neal Stephenson, autore del romanzo postcyberpunk Snow Crash) si sta imponendo come una rete di mondi virtuali interconnessi di cui gli utenti possono interagire, costruire e comprare oggetti digitali e svolgere attività ludiche e d’intrattenimento in contesti digitali.

Questo mondo parallelo assorbirà in sé tutte le esperienze virtuali dalla nascita di internet in poi.

La digitalizzazione della società e del mondo è una tendenza inarrestabile che postula tuttavia – cum grano salis – il nodo della sua governance, ragionando con la testa che abbiamo sul collo piuttosto che con quella che teniamo in tasca.

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