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Terapie Covid Vaccino

Plasma sì o plasma no anti Covid-19?

Che cosa sostiene l'Ambi, Associazione nazionale biotecnologi italiani, sull'utilizzo del plasma nella cura dei pazienti Covid-19

Plasma sì o plasma no?

Sì, ma senza false illusioni.

No, non può essere la cura definitiva, a basso costo, sottocasa. Ci spiace.

Vediamo perché.

Come sempre partiamo da alcune premesse doverose.

L’isolamento del plasma (plasmaferesi – vedi figura) ed il suo uso a scopi terapeutici è studiato da circa 100 anni, quello dei sieri da ancor di più.

In questo caso specifico si tratta di plasma ottenuto da persone che hanno superato la malattia e sviluppato anticorpi specifici che possono essere utilizzati per curarla (Convalescent Plasma).

Questo approccio è stato utilizzato ad esempio anche per combattere l’epidemia di Ebola del 2013: quindi niente di nuovo o rivoluzionario.

L’uso del plasma anche per la cura di Covid-19 è cosa nota, dibattuta e sperimentata all’interno della comunità scientifica (sperimentata perché ogni malattia ha la sua storia e quello che funziona in un caso può non funzionare in un altro. Ad esempio il plasma non funziona per l’AIDS o l’Influenza).

In Cina le prime sperimentazioni risalgono al 20 gennaio. I medici cinesi, venuti in Italia a darci una mano, ne parlano a fine marzo.

Inoltre se ne discute e pubblica anche su riviste scientifiche come qui (ma non solo), il 27 febbraio e il 18 marzo.

Premesso questo cosa si può dire di questa terapia per Covid-19?

I dati sono molto incoraggianti. Nella maggior parte dei casi si hanno miglioramenti senza, per ora, segnalazioni di particolari effetti collaterali (a differenza di quanto avviene ad esempio con alcuni farmaci come l’idrossiclorochina o l’eparina).

Molto toccante poi il caso di Pamela e la sua gravidanza complicata dal Covid-19.

Perché dunque non si usa su tutti questa terapia?

  1. Innanzitutto perché non è banale (vedi figura) trovare donatori di qualità che abbiano tutte le carte in regola per dare plasma con un buon numero di anticorpi (questo numero varia inevitabilmente da donatore a donatore – puoi averne uno “buono” e un altro “scarso”), siano (uomini) in buona salute e abbiano tutti i requisiti previsti dalla legge che serve a tutelare donatori e trasfusi, tanto che lo studio Pavia-Mantova ha potuto arruolare un basso numero di donatori tra quelli candidati.
  2. In secondo luogo perché un donatore non puoi spremerlo. Si può donare il plasma non più di 4-20 volte l’anno (in base ai livelli di emoglobina del donatore).
  3. Con ogni donazione puoi aiutare massimo 1-2 persone. Numeri che non si addicono certo a terapie applicabili su larga scala.
  4. La risposta immunitaria non sappiamo ancora quanto a lungo duri, ma con il tempo il titolo anticorpale (il numero di anticorpi specifici nel sangue) è destinato a scemare. Questo significa che questo approccio è efficace solo nel breve termine.
  5. Se ci fosse un ritorno della malattia, avremmo una nuova produzione di anticorpi nei soggetti contagiati e, dopo circa un mese dalla sua riesplosione, avremo di nuovo del plasma utilizzabile (siamo convinti che sia una buona strategia?).
  6. Trasfondere plasma crea uno squilibrio nei processi coagulativi di per sé già compromessi da Covid-19. Non è detto quindi che per tutti i pazienti si possa procedere col trattamento.

Quindi?

Quindi servono i biotecnologi. Servono per trasformare questo approccio, che funziona nel breve termine su piccola scala, in uno che funzioni su larga scala nel lungo termine, per vederci pronti ad intervenire il giorno 0 quando il Sars-CoV-2 si ripresenterà alla nostra porta. E, c’è da crederci, si ripresenterà.

Sia chiaro, non lo dice solo l’Anbi, lo dice anche l’Avis e tutti coloro che operano nel settore. Come sempre, meglio credere a loro che a whatsapp.

In particolare, su questo tema, segnaliamo i bellissimi interventi di Guido Silvestri e Enrico Bucci.

 

Post pubblicato sulla pagina Facebook di Anbi. 

 

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