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Difesa

Leonardo, Fincantieri e non solo. Come spendere di più per la difesa?

Il traguardo del 2 per cento nelle spese per la Difesa tra opportunità e rischi. Estratto dell'editoriale di Pietro Romano sul numero di Aeronautica&Difesa di giugno

La guerra in Ucraina sembra accelerare anche in Europa la tendenza mondiale all’aumento della spesa militare. Sotto l’incalzare degli eventi (e degli Usa) il Vecchio Continente ha acquisito la consapevolezza della necessità di affiancare al “soft power” anche una cospicua dose di “hard power”. Una consapevolezza che pare farsi strada perfino in Italia. Ben vengano quindi questa contezza nazionale nella classe dirigente e nell’opinione pubblica e il traguardo del 2 per cento nelle spese per la Difesa che il governo ha prefisso a se stesso e al nostro Paese. Con alcuni imprescindibili distinguo, però.

Prima di tutto, l’impegno che si chiede ai contribuenti dopo una crisi economica che dura ininterrottamente da oltre dieci anni deve rispondere a esigenze provate di sicurezza nazionale. Non può essere giustificato solo da obblighi contratti nell’ambito di alleanze internazionali, sia pur radicate. Né, in sostanza, dai diktat che arrivano dall’amministrazione Usa. Anche se alla Casa Bianca ora siede un presidente democratico, Joe Biden, come tutti gli inquilini democratici della Casa Bianca molto ascoltato a casa nostra a prescindere.

Privilegiare l’interesse nazionale significa tenere conto delle necessità italiane prima di pianificare investimenti considerevoli. “L’allocazione di maggiori risorse richiederà un’attenta valutazione sui programmi a cui assegnarle”, ha sottolineato a ragione l’amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo. Il problema non è solo spendere ma come spendere. E in cima a una spesa di qualità ci sono la tenuta in efficienza dell’arsenale, la formazione dei militari, l’innovazione, oltre che gli acquisti. L’incremento della spesa – 11 miliardi di euro annui rispetto a oggi solo per allinearsi al 2 per cento del prodotto interno lordo – non può essere sciupato in prebende, promozioni, spese e assunzioni di non comprovata necessità. Né, come sta accadendo in Germania, trasformarsi in una trasferta al supermarket “a stelle e strisce” con la scusante (talvolta veritiera) che solo oltre Atlantico c’è il meglio. Limitarsi a questo significherebbe che l’effetto dell’incremento di spesa sull’autonomia tecnologica europea (e per quanto ci riguarda in particolare italiana) sarebbe scarso o nullo, come ha rilevato Eric Beranger, Ceo del consorzio missilistico europeo Mbda, di cui Leonardo detiene il 25 per cento.

Bisogna cogliere l’occasione per sciogliere il dilemma di sempre: dipendere dagli Usa (che peraltro non vogliono collaborare con l’industria europea, la quale dovrebbe limitarsi a ruoli gregari) o far da soli. E l’occasione di innalzare le spese per la Difesa al 2 per cento del Pil, e soprattutto rimanere a tale livello in futuro, è imperdibile. Giochi “politici” all’interno della maggioranza per ora hanno già fatto ritardare al 2024 il raggiungimento del traguardo.

L’incremento della spesa militare può avere anche un enorme impatto sulla nostra economia: una indagine di Prometeia e Aiad (Associazione industrie dell’aerospazio e difesa) ha rilevato che l’effetto moltiplicatore degli investimenti nel settore è pari a 3 per quanto riguarda il valore aggiunto e a 4 per quanto riguarda gli addetti. Investimenti che, inoltre, rafforzerebbero il ruolo (sesto esportatore al mondo) che l’industria tricolore si è conquistato nel 2021. Grazie al suo “campione” Leonardo, a Fincantieri, a imprese del calibro di Elettronica e Iveco Defence Vehicles, di Avio Aero e Beretta, a tanti altri presidi medio-piccoli.

Questo non vuol dire, però, un ritorno all’autarchia. La collaborazione internazionale può e dev’essere perseguita, ma prendendo a esempio collaborazioni di successo. È il caso appunto di Mbda, il consorzio missilistico dalla governance-modello, anche per eventuali altri accordi tra le industrie del Vecchio Continente. Nel 2021 il consorzio ha scavalcato il muro dei 4 miliardi di ricavi e dei 5 miliardi di ordini e compete ad armi pari con il Made in Us. In questo ambito la parte italiana del consorzio, di cui è numero uno Lorenzo Mariani, si è distinta per qualità e risultati. E alla fine di quest’anno dovrebbe toccare il miliardo di ricavi, oltre il triplo del 2020.

 

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