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La fase 2 della PA? Molte cantilene ma (ancora) poca visione

Come procede la Pubblica amministrazione alle prese con la fase 2? L'analisi del dirigente pubblico Alfredo Ferrante

 

È finalmente partita, fra qualche confusione e con legittima prudenza, la cosiddetta fase 2 della strategia di uscita dalla vera e propria ibernazione in cui il Paese è stato indotto per contrastare la diffusione del contagio da Covid-19.

Le previsioni economiche per i prossimi mesi sono di quelle da far tremare i polsi e le conseguenze sociali con ogni probabilità impatteranno trasversalmente su tutta la popolazione, colpendo più duramente, come sempre accade, le categorie più fragili ed esposte. Uno scenario che deve preoccupare tutti e nel quale deve rientrare un serio discorso che investa ruolo e funzionamento della pubblica amministrazione, sia per il contributo che è chiamata a dare nel momento presente, sia, ancor più, quale attore determinante nello scenario post-coronavirus.

Da questo punto di vista, il tema sul piatto di Governo e Parlamento sembra essere quello di rendere più efficiente ed efficace l’azione pubblica, per assecondare e accompagnare, ora e domani, le dinamiche di una società complessa e matura come quella Italiana. In parole povere: semplificare l’agire della macchina pubblica – a tutti i livelli di governo – a servizio della politica e dei cittadini, poter contare su personale adeguatamente formato e aggiornato, fare sì che la burocrazia, attraverso la funzione propria di assicurare l’imparzialità dell’azione amministrativa e di erogazione di servizi, sia sempre più reattiva avverso le molteplici sfide che si presentano e si presenteranno in futuro. In questo quadro, sono due gli aspetti, fra loro strettamente correlati, per costruire una visione condivisa su cui investire, proprio ora che a tutti verrà richiesto di darsi da fare: ripensare l’organizzazione del lavoro pubblico e rendere più veloce, al netto delle necessarie fasi procedurali, l’azione pubblica.

Per quanto riguarda il primo punto, si sono recentemente spesi fiumi d’inchiostro sull’esplosione del lavoro agile nella PA: si è già scritto che lo smart working d’emergenza ha senza dubbio dato un salutare scossone alla gestione quotidiana degli uffici pubblici, confermando che, grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche, una parte importante del lavoro giornaliero può essere resa da esterno, con una serie di evidenti benefici per l’ambiente e per il lavoratore. Se si sarà capaci di rendere strategica la forma agile di prestazione lavorativa, senza frettolose marce indietro e resistendo alla irrefrenabile voglia di scrivania che già si agita nei cuori di molti riottosi al cambiamento, si pianterà un paletto essenziale nel campo della trasformazione dell’organizzazione del lavoro della nostra amministrazione pubblica.

È, certamente, una condizione necessaria ma non sufficiente: un cambio di paradigma culturale di questa magnitudine richiede, come disposto dalla recente circolare n. 3 del 2020 della Ministra per la pubblica amministrazione, di “mettere a regime e rendere sistematiche le misure adottate nella fase emergenziale, al fine di rendere il lavoro agile lo strumento primario nell’ottica del potenziamento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa”. È fondamentale, ad esempio, formare lavoratori e dirigenza e far sì che quest’ultima, su cui ricade l’onere della quotidiana spinta trasformativa, sia adeguatamente supportata attraverso un insieme minimo di regole chiare, evitando l’errore di voler a tutti i costi ingabbiare e regolamentare ogni minimo aspetto della prestazione lavorativa che, una volta per tutte, dà evidenza al risultato e non al controllo orario, con caratteristiche elastiche e adattabili alla bisogna. Senza voler costringere lo smart working nelle strette maglie dell’organizzazione simil-fordista, sarà allora sufficiente che si declinino le attività escluse dalla modalità agile, che si preveda una sufficiente connotazione della fattispecie nei contratti nazionali e integrativi e che sia attentamente considerata la sicurezza minima del lavoro da remoto, integrando la prestazione resa in modalità agile nelle attività di monitoraggio degli obiettivi. Passando al secondo aspetto essenziale per immaginare la PA post emergenziale e ripensarne l’organizzazione, è evidente che si rende necessario scomporre e ricomporre la stessa azione amministrativa. È sufficiente sfogliare un qualsiasi quotidiano o ascoltare le dichiarazione di molti tra gli esponenti dei partiti e dei movimenti politici per cogliere il mantra della fase 2: semplificare i processi, sconfiggere la burocrazia, liberarsi dagli ostacoli che potrebbero rallentare la ripresa.

Il caso del ponte di Genova è, da questo punto di vista, assolutamente esemplare: aver derogato al complesso di norme del codice degli appalti ha portato alla rapida conclusione dei lavori, sanando la dolorosa ferita del crollo del 2018. Ci si chiede allora da più parti se le regole che disciplinano l’agire della PA – negli appalti e, per estensione, in generale – siano troppo numerose o efficaci, e come avere a disposizione un’amministrazione più semplice e più veloce. Mettendo da parte le lamentele di prammatica sulla burocrazia, recitate a mo’ di stanca cantilena senza la piena complessità dei temi di cui si discute, è opportuno mettere in chiaro da subito che viviamo di una ineliminabile complessità: sin da quando lo Stato contemporaneo ha ritenuto opportuno occuparsi non esclusivamente di ordine pubblico e sicurezza delle frontiere, l’esigenza di regolamentare la complessa rete di attività, relazioni e dinamiche sociali, giuridiche e economiche è aumentata esponenzialmente. Tuttavia, se è velleitario pretendere che un ampio spettro di norme, che inevitabilmente debbono essere connotate da un altro grado di tecnicismo, sia facilmente digeribile da chiunque, altra faccenda è che il Legislatore intervenga cum grano salis, con approccio organico e non estemporaneo che, a valle, complica la vita per chi sia chiamato ad applicare o interpretare le disposizioni normative.

Cattiva qualità di redazione delle leggi e numero abnorme delle stesse contribuiscono a creare un groviglio che spetta poi al burocrate, novello esegeta, districare nel suo agire quotidiano: la necessaria discrezionalità di cui il dipendente pubblico deve godere è direttamente correlata all’attività di ricostruzione di un quadro ordinamentale spesso confuso e frastagliato ed è strumento indispensabile per tentare di trovare la strada giusta da seguire nei diversi dossier. Inutile negare, poi, che l’incertezza sul da farsi e la pluralità di responsabilità che scandisce minuto per minuto l’azione amministrativa possono rallentare le procedure e, talvolta, servire da facile scudo per chi voglia farsi paravento del blob normativo, scaricando a valle i ritardi a danno dei cittadini. Il Parlamento può decidere di eliminare alcuni controlli, ridurre i tempi, generalizzare il silenzio-assenso: il ventaglio di opzioni sul tavolo è amplissimo e spetta alla politica compiere le scelte del caso. Le modalità di regolazione dell’attività dei pubblici poteri, purché in aderenza ai principi costituzionali in materia, non sono scolpite nella pietra e possono cambiare al mutare delle esigenze della società, cui la PA è servente.

Attenzione, però: sarebbe pericoloso scaricare per intero sulle spalle degli amministratori pubblici l’onere di gestire una semplificazione tagliata con l’accetta che, nella concreta attuazione, potrebbe paradossalmente gestire maggiore complicazione, rimproverando magari al funzionario di non volersi addossare qualche rischio. Gestire la cosa pubblica non vuol dire sedersi ad una tavolo da poker: la posta è il diritto dei cittadini a risposte veloci e solide e tutte le parti in causa devono assumersi le proprie responsabilità, senza inutili, vicendevoli scaricabarile tra politica e burocrazia e evitando di alimentare lo scontro sociale, oggi più che mai. È richiesta una visione di lungo periodo, non (esclusivamente) condizionata da obiettivi di respiro corto.

Rimbocchiamoci le maniche ora.

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