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Deepfake

Per il futuro digitale “ci vuole un fisico reale”

Un impiegato di una società finanziaria è stato indotto a trasferire 25 milioni di dollari in un conto corrente truffaldino mediante una video-riunione, alla quale ha partecipato il direttore finanziario della società stessa insieme ad altri membri dello staff: tutti loro, però, erano stati generati dall'intelligenza artificiale. L'intervento del professore Enrico Nardelli dell’università di Roma Tor Vergata.

C’erano state da un po’ di tempo delle avvisaglie. Con l’arrivo degli strumenti di intelligenza artificiale generativa (IAG) si erano dapprima levati alti lamenti contro la diffusione della disinformazione, tema certamente assai delicato, ma che spesso viene trattato con un’imbarazzante amnesia selettiva della storia dell’umanità, nella quale chi ha avuto il potere ha sempre usato e piegato l’informazione al fine di mantenerlo ed estenderlo (ripagato, per quanto possibile, da chi questo potere non l’aveva e voleva conquistarlo). Ci si è spinti, in nome della “corretta” informazione, a demonizzare ogni opinione o discussione che osa avvenire su media non tradizionali, dimenticandosi della lezione di Gramsci sui giornali come strumento di lotta per gruppi di interesse che hanno i mezzi per cercare di influenzare l’opinione pubblica, arrivando addirittura a trasformare i punti di vista scientifici in verità di fede cui credere ciecamente.

Poi abbiamo assistito alla diffusione di articoli generati da questi strumenti e pubblicati da chi un tempo era riconosciuto come autorevole. Sono successivamente arrivati canali di “notizie personalizzate” presentate in video da giornalisti generati sinteticamente. Poche settimane fa, abbiamo visto una famosa cantautrice americana essere colpita dalla diffusione virale di sue finte foto pornografiche, generate appunto con l’IAG. A discredito di una categoria che fino a un po’ di anni fa aveva ancora un rigore etico pressoché assoluto nella pubblicazione, stiamo assistendo al fenomeno – imbarazzante per chi fa questo mestiere ed è, come me, stato formato in un’altra epoca – di sempre più ricercatori che usano allegramente la generazione sintetica per inondare le riviste scientifiche di falsi articoli.

Adesso è arrivata la prova definitiva che i soli avvenimenti ai quali potremo davvero credere in futuro saranno quelli che avverranno alla nostra presenza. In una società finanziaria, un impiegato è stato indotto a trasferire 25 milioni di dollari verso un conto corrente truffaldino mediante una riunione virtuale avvenuta in video-conferenza, alla quale ha partecipato il direttore finanziario della società stessa insieme ad altri membri dello staff. Tutti però, tranne il malcapitato che ha poi operato il trasferimento, erano stati generati sinteticamente dall’IAG. Secondo il resoconto, la truffa era iniziata con la solita mail di phishing ma, a causa delle giustificatissime perplessità dell’impiegato, si è poi evoluta in una vera e propria “sceneggiata” completamente inventata, ma che è andata a segno. Una nota di cautela (non si sa mai!): ho verificato, per quanto in mio potere, la veridicità della notizia ma, se anche non lo fosse, non cambia la sostanza del mio argomento.

Dobbiamo essere consapevoli che questa è la realtà nella quale ci troviamo immersi. Come si usa ripetere in questi casi “il genio è fuori dalla bottiglia” e certamente sarà impossibile farlo rientrare. Perché comunque, questo è molto importante da ricordare, l’IAG può offrire enormi opportunità per migliorare ogni nostra attività, se sappiamo usarla bene. Come ho discusso nel mio libro “La rivoluzione informatica” essa costituisce un esempio tra i più potenti di una macchina cognitiva, ovvero un’automazione delle capacità intellettive dell’essere umano, che replica su un piano più elevato ciò che una macchina industriale compie rispetto alle sue capacità fisiche. Siamo certamente sconcertati, dal momento che ciò accade a un livello riservato fino a pochi decenni fa esclusivamente alla specie umana, però sempre di un’attività meccanica si tratta. Il fatto che sia una macchina a svolgerla lo vedo come un aspetto positivo. In questo senso sono completamente d’accordo con quanto disse alla fine dell’Ottocento Charles W. Eliot, che è stato per quarant’anni, dal 1869 al 1909, presidente dell’Università di Harvard, trasformandola in uno dei più importanti atenei americani: «Un uomo non dovrebbe essere usato per un compito che può essere svolto da una macchina».

Col dilagare dell’IAG diventerà sempre più rilevante la presenza fisica e ciò che fanno le persone direttamente. Mi aspetto, da un lato, lo sviluppo di un mercato di prodotti “culturali” artificialmente generati per il consumo di massa. Sta già accadendo per i libri (ad esempio le guide turistiche) e per la musica (ad esempio sulle piattaforme di streaming). Ma, dall’altro, questo riattribuirà a spettacoli teatrali, concerti ed eventi artistici in presenza, quel valore che stavamo dimenticando.

Ovviamente le conseguenze sociali di questo sviluppo tecnologico devono essere tenute in debito conto, perché rischiamo di trasformare, almeno in quest’Europa che ha visto nel secondo dopoguerra lo sviluppo di una società molto più equa ed equilibrata di quelle che avevamo nei secoli passati, le nostre comunità in nuovi domìni feudali, legati adesso non al possesso della terra ma a quello delle infrastrutture digitali.

Pensate ad esempio ai vari servizi che sono importanti in ogni società democratica: se non facciamo attenzione, chi può pagare avrà il medico o l’avvocato o l’insegnante umano, per tutti gli altri ci sarà quello sintetico. Cercheranno di convincerci che è per il nostro bene avere il professionista “artificialmente intelligente”, mentre invece servirà allo scopo per cui abbiamo visto usare la tecnologia digitale negli ultimi 50 anni. Cioè aumentare la produttività a salario sostanzialmente invariato, incrementando di conseguenza la quota profitti senza far partecipare la classe lavoratrice a questo beneficio e quindi, in ultima analisi, allargando il divario tra le classi sociali.

Giustamente, Daniel Dennett, uno dei pensatori più acuti nel settore dell’intelligenza artificiale, ha argomentato che l’utilizzo non dichiarato di persone fittizie dovrebbe essere un crimine perseguito con la stessa severità con cui vengono perseguiti gli spacciatori di denaro falso. È in gioco, ha sostenuto a ragione, il futuro della nostra civiltà.

In un mondo in cui ogni documento è diventato digitale e perciò facilmente alterabile o generabile a piacere, esso perde la sua valenza di testimonianza su ciò che è successo. A meno che non sia chiaramente legato in modo chiaro e non disconoscibile ad un autore affidabile e credibile. Cominciano ad essere disponibili soluzioni tecnologiche basate sulla certificazione dell’identità e autenticità dello strumento usato per generare un certo contenuto (sta accadendo nel campo della fotografia). In sintesi, è lo stesso principio della carta d’identità elettronica con cui possiamo dimostrare chi siamo quando operiamo sulle piattaforme digitali. Non è detto che siano definitive: ad esempio, non abbiamo ancora un utilizzo generalizzato dei tanti meccanismi di certificazione della provenienza dei messaggi di posta elettronica che pure sono stati inventati da decine di anni. Né va mai dimenticato che anche queste soluzioni, pur se assai sofisticate, possono essere alterate, disponendo di risorse sufficienti e sfruttando le opportune circostanze. E va fatta anche attenzione a non esasperare questo approccio pretendendo di certificare ogni espressione del pensiero umano, poiché ciò – impedendo di fatto il dissenso – porterebbe alla distruzione della democrazia.

Pertanto, sempre di più, nel nostro futuro digitale, le radici della fiducia torneranno ad essere legate agli esseri umani e al rapporto in presenza.

Si tratta di un ritorno all’antico che spero impareremo a riapprezzare, di cui vi è una testimonianza linguistica (che dovrebbe ricordare chi ha fatto il classico) nel verbo del greco antico che esprime l’azione di “sapere” (io so = οἶδα), che altro non è che il tempo passato del verbo che esprime l’azione di “vedere” (io vedo = ὁράω). Quindi, “io so” perché “io ho visto”, in prima persona.

Spero davvero sia questo il motivo dominante del nostro futuro: la sempre maggiore importanza del piano fisico in una società sempre più digitalizzata.

Il futuro che vale la pena vivere sarà in presenza: possiamo quindi dire, per parafrasare una famosa canzone, “ci vuole un fisico reale”.

(I lettori interessati potranno dialogare con l’autore, a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione, su questo blog interdisciplinare.)

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