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5g Modelli Business

Huawei può fare a meno dei fornitori Usa. Parola di Huawei

Al Mobile World Congress di Shanghai i colossi cinesi Huawei e Zte hanno mandato un monito piuttosto esplicito agli Usa e ai loro alleati. L'articolo di Ugo Barbara di Agi

Quello che tutti aspettavano che accadesse, sta succedendo davvero: i big della tecnologia cinese hanno deciso di fare a meno dei fornitori statunitensi. Lo ha detto con estrema chiarezza Huawei e lo ha lasciato intuire Zte. L’occasione l’ha fornita il Mobile World Congress di Shanghai, da dove i manager delle aziende di telecomunicazioni hanno deciso di mandare un messaggio piuttosto esplicito alla Casa Bianca (e indirettamente ai suoi alleati europei): noi siamo pronti a fare a meno di noi, ma voi siete pronti a fare a meno di noi?

Le rivelazioni del New York Times, secondo cui la fornitura di microprocessori con tecnologia americana a Huawei è continuata (e a ritmi ancora più intensi) nonostante il bando imposto da Donald Trump, sono la prova che il passo deciso dall’amministrazione statunitense è stato piuttosto indigesto per aziende che rischiano di vedere sparire dal proprio portafoglio un cliente da milioni di pezzi ogni anno. Le dichiarazioni di Ken Hu, presidente di Huawei, e di Xu Ziyang, ceo di Zte, a Sanghai sono la dimostrazione del contraccolpo (che non poteva essere inatteso) della politica dei dazi, nel momento in cui dà impulso a colossi con risorse pressoché infinite a rendersi indipendenti.

“Lavoriamo da una decina di anni alla realizzazione di chipset proprietari” ha detto durante un incontro con la stampa Zhang Whanchun, vicepresidente di Zte, responsabile per i prodotti wireless, “abbiamo diversificato la catena di approvvigionamento, rivolgendoci a fornitori da tutto il mondo, non solo per garantirci i prodotti migliori, ma anche per assicurarci stabilità e continuità. Mantenendo due o tre fornitori per ogni prodotto”.

Quando accenna all’importanza di garantire la stabilità della catena di approvvigionamento, Zhang sa bene di cosa parla: appena due anni fa Zte finì in ginocchio per l’embargo imposto dalla Casa Bianca all’azienda di Shenzhen, colpevole di fare affari con l’Iran, con il risultato di dover sottostare a un umiliate e oneroso accordo (1,4 miliardi di dollari) per poter tornare a rifornirsi di processori negli Stati Uniti.

All’epoca si combatteva una guerra diversa da quella di oggi: nel mercato degli smartphone ancora in espansione le aziende cinesi si affacciavano determinate a conquistare quote erodendole a protagonisti consolidati ma a corto di idee come Apple e Samsung. Forti di una capacità produttiva senza rivali, nomi come Huawei (con Honor), Zte e Oppo, ma anche – e sempre più – OnePlus e Xiaomi, mettevano a disposizione degli operatori di telefonia e delle rivendite online device per tutte le tasche, dall’entry level al top di gamma. Allora il bando Usa paralizzò per qualche tempo la produzione di telefoni, ma Zte fu abile a gestire la crisi (anche se a caro prezzo) e a tornare sul mercato recuperando in fretta le quote perdute.

Oggi lo scontro è su un campo diverso e nessuno può permettersi il lusso di restare fermo nemmeno per un secondo, figurarsi per qualche mese. Quel campo si chiama 5G e, a prescindere dalla fondatezza o meno dei timori (o delle paranoie) in termini di cibersecurity, si tratta di uno degli elementi che più contribuiranno a delineare gli equilibri geostrategici in un’epoca in cui è il controllo dei potenziali scenari di crisi a determinare l’influenza di un Paese (e di un governo) ancora di più della quantità di armi di cui può disporre.

Dal riconoscimento facciale al dispiegamento di droni in tempo reale, il 5G – e, più in generale, la gestione dell’Iot l’Internet delle Cose – permetterà di controllare e contenere le conseguenze e la portata di incidenti, disastri naturali e, perché no, sommosse.

Quello della disponibilità del sistema operativo Android è solo uno dei problemi che il bando Usa sta causando a Huawei. La fornitura di processori Qualcomm (e forse presto Intel) è un altro e ben più grave e potrebbe paralizzare la produzione e quindi la consegna delle antenne del 5G nei Paesi in cui l’azienda ha siglato contratti.

Huawei, ha detto Ken Hu, controlla da sola il 50% del mercato mondiale dell’infrastruttura 5G, seguita da Nokia, Ericsson e Zte. Dei 50 contratti che Huawei ha in giro per il mondo 5G, quasi la metà – 28 per l’esattezza – sono in Europa, 11 in Medio Oriente, 6 in Asia, 4 in America Latina e 1 in Africa. Le antenne già consegnate sono 150 mila e l’obiettivo è di arrivare a 500 mila. Zte da parte sua ha siglato 25 contratti – più della metà in Europa e in Italia ha in corso una sperimentazione con Wind 3 a L’Aquila e Prato – e ha 100 mila stazioni base in consegna quest’anno.

Con questi numeri, l’ipotesi di restare a secco di componentistica non è nemmeno contemplata.

“Abbiamo realizzato molte piattaforme di applicazione del 5G, per il pubblico e l’industria” ha detto il ceo di Zte, Xu Ziyang all’Agi “su queste piattaforme possiamo gestire appieno la capacità di rete e collaborare con i partner industriali. Abbiamo già valutato un ampio spettro di scenari con circa 200 partner in tutto il mondo per portare l’innovazione e I modelli di business a un nuovo livello di successo”.

Quello che nelle parole di Zhang suona come un invito all’apertura, in quelle di Hu ha invece la durezza del monito: Huawei può fare a meno dei fornitori statunitensi, ma è pronta a continuare a lavorare con loro se il bando varato dalla Casa Bianca dovesse essere revocato. “Abbiamo assunto iniziative concrete e trovato alternative ai fornitori americani così da essere in grado di garantire le consegne di 500 mila stazioni base per il 5G da qui alla fine dell’anno” ha detto incontrando la stampa a Shanghai, “Non abbiamo motivo di ritenere che la fornitura di componenti da produttori giapponesi come Toshiba e Sony debba subire contraccolpi dalla situazione che si è venuta a creare per via del bando, perché tutto avviene nel pieno rispetto della compliance. Inoltre con questa nuova componentistica registriamo livelli di performance anche superiori a quelli precedenti. Questo non significa che vogliamo fare a meno dei fornitori americani, ma che se dovessimo essere costretti, non avremmo problemi a farlo”.

 

(Estratto di un articolo pubblicato su Agi.it)

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