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Mingardi

Guerra Usa-Cina, sta funzionando il Chips Act di Biden?

Gli effetti del Chips Act Usa sullo sviluppo tecnologico cinese sono stati finora molto ridotti e hanno perlopiù generato un problema di costi e non di performance. Costi che i colossi tecnologici cinesi sembrano in grado di assorbire. L'approfondimento di Cesare Alemanni per il blog Appunti di Stefano Feltri

 

Se negli ultimi mesi non avete vissuto su Marte, lo sapete già: l’età dell’intelligenza artificiale (AI) è ufficialmente cominciata.

A dire il vero, è cominciata già da settant’anni, tuttavia è solo con l’avvento di chatbot come Chat-GPT e AI generative come Midjourney che l’intelligenza artificiale è divenuta un tema davvero famigliare alle grandi platee.

Non passa giorno senza che si discuta delle potenzialità straordinarie e/o delle implicazioni catastrofiche di questa tecnologia. Tra profezie di apocalisse (totale o “soltanto” sociale) e miraggi di “fine del lavoro”, le intelligenze artificiali sono state uno dei principali argomenti del biennio 22/23.

C’è, però… un però.

I discorsi sulle AI, soprattutto quelli in prospettiva, trattano la questione come se fosse magia. Come se essa non dipendesse da contingenze concrete e della continuità di una determinata traiettoria di sviluppo. La quale tuttavia non è per nulla garantita, per ragioni tecniche ma anche politiche.

Le intelligenze artificiali sono infatti uno dei campi su cui si gioca, già da qualche anno, la partita tra Stati Uniti e Cina per il “dominio del XXI secolo”. Tanto che ormai si parla di “corsa all’AI”, con gli stessi toni con cui durante la Guerra Fredda si parlava di “corsa agli armamenti”.

Se davvero di una corsa si tratta, la prima a staccarsi dai blocchi è stata la Cina, sei anni fa. A luglio 2017, il governo cinese pubblicò un documento dal titolo “Piano di sviluppo per una AI di nuova generazione”.

Con esso la Cina si dava l’obiettivo di diventare la potenza leader nel campo dell’AI entro il 2030. All’interno del “piano”, la AI veniva definita come “una priorità nazionale” e come tale negli ultimi anni è, in effetti, stata trattata. Col risultato che al momento la Cina “produce” quasi mezzo milione di ingegneri specializzati in AI all’anno, ed è il paese numero uno al mondo per sostegno e qualità della ricerca accademica nel campo.

Lo sviluppo dell’AI cinese è stato avvantaggiato dal fatto che Pechino si può permettere di trattare la privacy degli utenti e i loro dati (di cui le AI sono notoriamente fameliche) in modo molto più disinvolto di altri paesi. Al punto che la rinuncia alla privacy di 1.4 miliardi di persone – anche in nome del rapido sviluppo tecnico delle AI – è stata presentata, senza alcun giro di parole, dal governo di Xi Jinping come una questione di interesse nazionale.

Negli ultimi due anni, questi passi avanti hanno causato notevole allarme negli Stati Uniti. Anche perché le implicazioni delle AI non si fermano certo alla sfera civile ma promettono di avere enormi ricadute anche su quella militare.

Basti pensare che, in teoria, un’AI abbastanza avanzata potrebbe concepire una strategia di aggressione atomica che non si concluda con l’autodistruzione di entrambi i contendenti. Rendendo, almeno in teoria, “possibile” vincere una guerra atomica.

LA RISPOSTA AMERICANA

Con un livello di “dirigismo” senza precedenti negli ultimi decenni, nella tarda estate del 2022, la contromossa degli Stati Uniti si è concretizzata nell’ormai famigerato CHIPS and Science Act. Con esso l’amministrazione Biden ha posto il veto sull’esportazione in Cina dei chip di ultima generazione e degli strumenti per la loro fabbricazione. All’interno del CHIPS Act, particolare attenzione veniva dedicata ai chip logici più potenti e microscopici (nell’ordine di meno di 5 nanometri. Per capirci: il diametro di un capello umano è di circa 80.000 nanometri).

Questi nanochip svolgono funzioni altamente specializzate e sono fondamentali nel processo di accelerazione logica su cui si basa il funzionamento delle AI generative. Si tratta, senza dubbio, degli oggetti tecnologici più avanzati che l’essere umano sia oggi in grado di produrre in massa.

Tuttavia, data la composizione estremamente intricata e complessa delle filiere industriali da cui dipende la loro produzione, oggi questi chip sono sì spesso disegnati, e progettati, da aziende americane ma materialmente possono essere prodotti in pochissime e sofisticatissime fabbriche, dotate di macchinari dai costi esorbitanti e di personale iper-qualificato e dalla formazione estremamente costosa.

Problema: quasi nessuna di queste fabbriche si trova negli Stati Uniti. E anzi, la più importante di esse, di nome TSMC, si trova a Taiwan, ovvero nel paese che più di ogni altro è oggi al centro delle mire espansionistiche della Cina. Anche, se non proprio, per la presenza di TSMC.

Per effetto del CHIPS and Science Act, i produttori di nanochip di ultima generazione non potranno più vendere i loro prodotti più avanzati in Cina.

Potranno tuttavia continuare a vendere chip leggermente più “indietro” nell’evoluzione della specie.

Il principio alla base della mossa Biden infatti non è quello di arrestare del tutto, bensì di rallentare, l’evoluzione tecnologica cinese per assicurarsi che essa resti sempre un passo indietro a quella americana (ritroviamo qui i principi di quella dottrina del contenimento che raccontavo su Macro qualche settimana fa).

Il paradosso è che proprio quei chip che Biden vorrebbe tenere fuori dalla Cina sono, come detto, in realtà prodotti alle sue porte, a Taiwan.

L’effetto indiretto del CHIPS Act sarà dunque quello di aumentare la pressione sull’isola e, con essa, la tentazione cinese di invaderla.

A tal proposito i vertici di TSMC hanno già dichiarato che, nel caso di attacco cinese, sono pronti a distruggere le proprie inestimabili fabbriche. Sarebbe un danno colossale non solo per Taiwan ma per l’economia globale (si stima un triliardo di dollari di perdita secca all’anno) e comporterebbe un brusco rallentamento nello sviluppo dell’intera economia dell’AI.

Se un eventuale distruzione di TSMC rappresenta il “pericolo” più concreto per il futuro sviluppo dell’AI (perlomeno tra quelli legati alla contesa sino-americana) ce ne sono anche altri più indiretti e sottili.

Come evidenziato da un recente intervento di AI Now, ottimo think tank sui temi delle intelligenze artificiali, uno dei rischi di una “corsa all’AI” tra superpotenze è che essa finisca per giustificare lo scavalcamento di regolamentazioni finalizzate a controllare uno sviluppo il più possibile armonioso, sostenibile ed etico di queste tecnologie con effetti sociali potenzialmente devastanti. Come si legge nel testo dell’articolo:

“È evidente che, negli Stati Uniti, la cosiddetta “corsa all’IA” contro la Cina, non solo ha alimentato un appetito, che va oltre le divisioni di partito, per un maggiore sostegno allo sviluppo e all’implementazione dell’IA, ma ha anche contribuito a contrastare le richieste di uno sviluppo più lento e sorvegliato e di regolamentazioni più robuste. Questa retorica […] è cresciuta d’influenza e viene utilizzata in modo sempre più deliberato nell’ambito delle politiche a sostegno degli interessi delle più grandi corporation tecnologiche”.

Esiste dunque la concreta possibilità che pur di vincere la corsa alle AI, gli Stati Uniti e potenzialmente anche l’Europa (che in questa corsa è, al momento, terza e parecchio attardata), decidano di rivedere i propri standard di vigilanza e regolamentazione del settore dell’AI al ribasso, seguendo così la Cina in una spirale che subordina il fine ultimo della tecnologia come “progetto di potenza” a qualunque considerazione sul suo impatto.

LA CINA FA DA SOLA

Infine l’ultimo “rischio” è che il CHIPS Act ottenga l’effetto opposto a quello sperato. Invece di deprimere lo sviluppo dell’AI cinese esso corre il rischio di fornire incentivi alla crescita di un’industria tecnologica cinese più robusta e autosufficiente, anche sul versante dei chip. Dopotutto il rafforzamento di ciò che si voleva indebolire è un effetto collaterale, storicamente piuttosto frequente, delle politiche “protezioniste”.

Di recente, un effetto lo ha già ottenuto. È notizia di pochi giorni che la Cina ha deciso di porre sotto controllo le esportazioni di gallio e germani, metalli che sono parte imprescindibile della filiera dei chip.

Un atto che, evidentemente, sa di rappresaglia e che testimonia di un clima sempre più ostile intorno ai chip e, dunque, di riflesso, intorno all’AI.

Lo sviluppo di questo scenario è difficile da prevedere al momento, anche perché “importare” fabbriche come quelle di TSMC è, secondo alcuni, una fatica di Sisifo rispetto alla velocità a cui viaggia l’evoluzione dei chip.

E tuttavia, secondo recenti analisi, gli effetti del CHIPS Act sullo sviluppo tecnologico cinese sono stati finora molto ridotti e hanno perlopiù generato un problema di costi e non di performance.

Costi che i colossi tecnologici cinesi sembrano in grado di assorbire. Specie visto che alle loro spalle c’è un governo che, come detto, non ha mai fatto mistero di voler arrivare al 2030 da leader mondiale dell’AI.

(Estratto dal blog Appunti)

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