Potrebbe essere il classico sassolino che, ruzzolando, dà il via a smottamenti assai più importanti l’indagine fiscale italiana che ha portato la Procura di Milano a formulare nei confronti dell’ex management di X (ai tempi si chiamava Twitter) l’ipotesi di “dichiarazione infedele” bussando alla porta della società ora di Elon Musk per chiedere indietro 12,5 milioni di euro.
La richiesta in sé è irrisoria per X, azienda che ha generato 3,4 miliardi di dollari di fatturato nel 2023, ma potrebbe comunque incidere sui bilanci della piattaforma, se il teorema accusatorio trovasse sponda a livello giurisprudenziale rivoluzionando il modo in cui il social deve calcolare quanto dovuto all’erario. E potrebbe persino incrinare i rapporti diplomatici tra Italia e Usa, mai così apparentemente idilliaci, considerato il ruolo e il peso di Musk nel team presidenziale. Ma, anzitutto, i fatti.
COME MAI IL FISCO BUSSA ALLA PORTA DI X
La contestazione mossa dall’Italia, riporta Reuters, riguarda il periodo 2016-2022 anche se l’indagine è stata ultimata solo nell’ultimo periodo.
E dato che Elon Musk ha acquistato l’ormai ex Twitter nell’autunno del ’22, eventuali addebiti penali riguarderanno la passata dirigenza. Per la precisione due ex manager, uno con cittadinanza irlandese e l’altro indiano, indagati dal pm Giovanni Polizzi.
Elon Musk invece potrebbe essere chiamato a rispondere, con la sua piattaforma, del fronte economico dell’inchiesta, laddove fosse confermata davanti a un giudice, s’intende.
LA TESI DEI MAGISTRATI ITALIANI
E la tesi della Procura di Milano e dell’Agenzia delle Entrate in effetti è tutta da provare in quanto verte sul capovolgimento del paradigma classico al fine di arrivare a tassare i singoli iscritti alle varie piattaforme social.
Questo perché, dicono i magistrati requirenti, gli iscritti gratuiti rappresentano comunque per i gestori una fonte di reddito, dal momento che gli internauti cedono i loro dati che vengono monetizzati dalle piattaforme con inserzioni pubblicitarie su misura.
QUANDO IL DATO E’ L’UTENTE
L’idea è ardita, ma è stata in realtà suggerita al Fisco proprio dalle piattaforme di Mark Zuckerberg ed Elon Musk quando hanno iniziato a predisporre abbonamenti a pagamento, mettendo nero su bianco che coloro che avessero voluto continuare a usufruire dei servizi in modo gratuito che avrebbero allora “pagato” coi propri dati.
Un escamotage cui le Big Tech Usa hanno fatto ricorso essenzialmente per non infrangere le norme europee – sempre più restrittive – sull’uso dei dati dei propri iscritti, ma che di fatto ha evidenziato un business model rimasto fino a quel momento nell’ombra.
SOTTO LA LENTE DEL FISCO NON SOLO MUSK, ANCHE META
Ecco perché sempre al Tribunale di Milano qualche tempo fa è stata depositata un’analoga contestazione a Meta ma per 877 milioni di euro.
Ed ecco perché la richiesta che il Fisco muove a Musk, per quanto irrisoria, potrebbe arrivare a deteriorare i rapporti tra Usa e Italia, facendo detonare Donald Trump che ha già dimostrato insofferenza per come le Big Tech statunitensi vengono trattate in Europa, ventilando dazi sui prodotti europei come ripicca.
ALTRI PAESI UE SEGUIRANNO L’ESEMPIO ITALIANO?
L’Italia potrebbe fare da apripista e iniziare a calcolare l’Iva di Meta, X e degli altri social in modo innovativo, magari seguita a ruota da altri Paesi europei che da anni si interrogano sul modo di far pagare più tasse ai colossi del Web esteri che hanno proprio nel Vecchio continente uno dei loro principali mercati.