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Facebook, perché lo strapotere di Zuckerberg non piace più

L'analisi di Pierluigi Dimitri

Facebook, il colosso dei social network, ha perso oltre 120 miliardi di dollari di capitalizzazione nonostante un fatturato aumentato del 42 per cento e un utile superiore ai 5 miliardi. Come mai? Le cifre dei ricavi sono risultate ben lontane da quelle attese e c’è stato un calo mensile di un milione di utenti unici in Europa. Disastro simile è capitato anche a Twitter che, come Facebook, si è difesa accusando l’entrata in vigore della nuova normativa europea sulla privacy.

Dopo il crash miliardario in borsa, gli azionisti di Facebook tornano all’assalto del mega CEO, Mark Zuckerberg, considerato naturalmente il primo responsabile di un tonfo che, prima o poi, sarebbe dovuto arrivare, ma che ha avuto proporzioni certamente sorprendenti. È di ieri la notizia del primo azionista che intenta una causa a New York contro l’azienda, accusando l’ad Zuckerberg e il capo finanziario Wehner di false e tardive comunicazioni societarie circa l’andamento dei ricavi, dei margini operativi e della forte riduzione degli iscritti sul social network più grande del mondo. Ma non è certamente il primo ad essere scontento della direzione aziendale: lo scorso anno, infatti, il 51 per cento degli investitori indipendenti voleva estromettere il fondatore dalla presidenza, considerando eccessivo l’accentramento dei poteri sulla società.

Tuttavia, Zuckerberg detiene azioni di classe B, con le quali mantiene l’assoluta maggioranza nel potere di voto (75 per cento). È un continuo avanzare di “poveri” piccoli milionari azionisti, i quali niente possono, in concreto, se non appoggiarsi al continuo ciarlare dei media e dei politicanti, che puntano i riflettori con maggior vigore di prima, a seguito dello scandalo di Cambridge Analytica. Da un lato dobbiamo fare i conti con certa stampa che, pur di vendere qualche copia in più, prova piacere nel raffigurare il fondatore nelle maniere più diverse: il giorno prima, nei panni di un moccioso visionario che non sa gestire la sua stessa creazione; il giorno dopo, in quelli del freddo manipolatore finanziario che appena vende mezzo miliardo di azioni della sua società è subito The Wolf of Wall Street. Dall’altro lato, vi è un’azienda che sembra essere sempre più lontana sia dagli interessi degli azionisti che dai bisogni dei clienti-utenti. Questi ultimi, con il nuovo sistema algoritmico, hanno visto ridurre la possibilità di rendere la loro attività maggiormente visibile, pur pagandola a peso d’oro, semplicemente perché qualcuno dalla California aveva deciso che per gli utenti fosse più importante sapere con chi si frequenta l’amico d’infanzia o a quale compleanno sia arrivato il nipotino della vicina, con la quale a malapena ci si scambia il buongiorno. Una scelta che, capirete bene, spetterebbe all’utente e non a Facebook, che comunque continueremo a ringraziare per averci messo a disposizione le proprie tecnologie, ma che non può certamente dimenticare che la sua ricchezza più grande siam proprio noi, gli utenti.

La sensazione che pian piano si incomincia ad avvertire è dunque quella di sentirsi burattini nelle mani di un burattinaio che si diverte a sperimentare: oggi alle attività conviene sponsorizzarsi su Instagram (proprietà di Facebook Inc.) e quindi sarebbe meglio “spostarsi” e produrre contenuti più adatti a quel tipo di social network; domani chissà. Dovrebbe essere certamente nell’interesse dell’azienda non far passare questa tipologia di messaggi, così come non deve certamente passare l’idea che le pessime cifre europee siano dovute esclusivamente all’astratta GDPR, quando in America la crescita di utenti è stata nulla. Non sarebbe proprio il caso di una ventata d’aria fresca nella governance?

Proprio guardando al modello gestionale ci si rende subito conto che dietro il social network più famoso c’è un’anomalia che non è presente in altre importanti corporation come Google, Apple e Microsoft: il presidente e il CEO (nonché fondatore) di Facebook sono la stessa persona. Non parliamo certamente di un produttore di salumi, con tutto il rispetto per chi fa questo come lavoro, ma di una società con un fatturato di oltre 40 miliardi di dollari (2017) e che mette in contatto 2,2 miliardi di utenti sulla propria piattaforma.

Se Zuckerberg lasciasse almeno la presidenza ad un super-manager indipendente e di grande esperienza, i soci potrebbero ricevere quella figura di maggiore garanzia che da tempo richiedono. Ciò potrebbe però non bastare per ridurre l’eccessivo controllo del fondatore-proprietario sulla sua creazione. Il vero cambiamento sicuramente sarebbe l’eliminazione del modello azionario a doppia classe, A e B, che ha consentito un potere esecutivo immenso a Zuckerberg. Prima che lo imponga il legislatore o un epocale evento negativo per la società, magari non così diverso da quello capitato in borsa qualche giorno fa, sarebbe il caso che Facebook inizi a fare qualche cambiamento interno.

Dopo quanto accaduto in questi ultimi due mesi, non ci si può più limitare ad una nuova informativa sulla privacy. L’azienda deve interrogarsi su quali siano state le vere cause dei problemi (tecnici e non) del social network e degli scandali politici che lo hanno coinvolto, e se tra queste cause non ci sia proprio il modello di governance aziendale. Parliamo di un’azienda dalle grandi ambizioni, che ha fatto molti passi in avanti e altrettanti ne vorrà fare. Tutto questo è certamente stato possibile soprattutto grazie al suo fondatore visionario, ora tanto vituperato. Adesso è il momento della rivoluzione del fintech e Facebook ha già incominciato a giocare un ruolo chiave attraverso Facebook Payments International Ltd. Per andare avanti ci sarà bisogno non solo delle tecnologie e delle licenze opportune, ma soprattutto della fiducia degli utenti, che potrebbe ritornare proprio con un modello gestionale più trasparente e meno accentrato.

Per ora, Mark Zuckerberg resta intoccabile e continua con la sua solita litania, assumendosi responsabilità di quasi tutto ciò che gli accada intorno e manifestando incapacità e impotenza nel cercare di evitare l’inevitabile.

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