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Facebook

Facebook e Cambridge Analytica, che cosa hanno combinato davvero

Fatti, nomi, numeri e commenti nell’approfondimento di Vittorio Liuzzi “Sesso sicuro? Non esiste. Non puoi mai essere sicuro, ha a che fare con gli altri. Tu permetti a qualcuno di penetrare nei tuoi jeans, e chi ti dice che non si spingerà fino alla tua testa?” Così chiosa Peter Thompson – protagonista di Rancid Aluminium,…

“Sesso sicuro? Non esiste. Non puoi mai essere sicuro, ha a che fare con gli altri. Tu permetti a qualcuno di penetrare nei tuoi jeans, e chi ti dice che non si spingerà fino alla tua testa?” Così chiosa Peter Thompson – protagonista di Rancid Aluminium, romanzo dell’autore inglese James Howes pubblicato nel 1997 – mentre, da tranquillo, piccolo imprenditore e marito sprofonda in un intrigo spionistico su vasta scala.

“La privacy in rete? Non esiste. Non puoi mai essere sicuro, ha a che fare con quel che fanno dei tuoi dati. Tu permetti a qualcuno di penetrare nel tuo account, e chi ti dice che non si spingerà fino alla tua testa?” si potrebbe chiosare in relazione allo scandalo Cambridge Analytica che riempie le cronache in queste ore. Un bel thriller, se fosse un film. Facebook, la Brexit, Trump, il miliardario conservatore Robert Mercer, Steve Bannon, la Russia, il destino della democrazia e 50 milioni di persone spiate. E l’influenza che, attraverso questo massiccio processo di raccolta dati, si può ottenere sulle scelte elettorali. Tutto a opera di Cambridge Analytica, una società – di cui Bannon è stato vicepresidente – fondata nel 2013 da Mercer e Alexander Nix, capo della divisione elettorale di Scl – Strategic Communication Laboratories – un’agenzia di comunicazione strategica britannica, che opera nei campi della politica e della difesa.

È l’ingovernabile complessità del mondo contemporaneo il brodo di coltura di tutta questa storia. E il modo in cui Cambridge Analytica si sarebbe insinuata nelle pieghe di questa complessità, è la cifra di questa vicenda. Il meccanismo, se sarà confermato, è chiaro. I social network sono imprese commerciali. Come per ogni impresa, il primo obiettivo è il profitto. Detto senza moralismo, “la merce siamo noi”. Share. Condividere. È la parola magica dei social network, ambienti digitali in cui, appunto, condividiamo idee, esperienze, convinzioni, passioni con i nostri “amici” o followers. La condivisione è il paradigma alla base di questi ambienti sociali in rete che sono divenuti parte della vita quotidiana di miliardi di persone e i nodi fondamentali della crescita commerciale di Internet.
In simili ambienti, però, condividere significa non solo scambiare esperienze con altre persone, ma anche seminare bricioline lungo il nostro percorso come tanti Hansel e Gretel digitali. Ogni briciola è un dato grezzo che creiamo ogni volta che facciamo qualcosa come cliccare, dare un “mi piace” a una pagina come quella di una squadra di calcio, un cantante, un partito, stringere un’amicizia, o attuare una delle tante azioni che compiamo, quotidianamente in rete sui vari network. Quelle bricioline vengono raccolte, sommate e sfruttate a fini commerciali. Perché, seppur – si suppone – in forma aggregata e anonima, vengono messe a disposizione degli investitori pubblicitari.

Nel 2014, quando, secondo le inchieste giornalistiche, si svolge la violazione, Facebook permette anche (oggi questa pratica è stata eliminata) di sviluppare app cui gli utenti possono accedere attraverso il proprio profilo. Con l’installazione dell’app, l’utente dà, volontariamente e consapevolmente, accesso allo sviluppatore della stessa ad alcuni dati del profilo: ad esempio, città di residenza, i like alle pagine, la lista amici e così via. Le informazioni richieste sono dichiarate nella schermata di istallazione della stessa app.

Solo che il metodo raccontato all’Observer e al Guardian dal whistleblower Christopher Wylie, analista dati già in forza a Cambridge Analytica, se confermato, va ben aldilà di questo. Perché lo sviluppatore di una delle tante app implementate, al tempo, su Facebook fa anche un’altra cosa, vietata dalle regole di quel social network. Infatti, i dati raccolti da un app chiamata “Thisisyourdigitallife” comprendevano, a loro insaputa, informazioni sugli “amici” di coloro che la installavano per partecipare, dietro compenso, a un test della personalità. In tutto, l’app fu utilizzata da 270.000 persone. Il computo degli “amici” porterebbe – secondo il Guardian – i profili coinvolti a 50 milioni di utenti.
“Thisisyourdigitallife”, era un’app sviluppata da Aleksandr Kogan – professore a Cambridge e all’università di San Pietroburgo – che, sostiene il Guardian, faceva anche ricerche per il Governo russo sulle risposte emozionali degli utenti Facebook – attraverso la società da lui stesso fondata, la Global Science Research. Ora, afferma Wylie, Kogan vendette quella messe di dati a Cambridge Analytica. Il cui obiettivo era creare profili psicografici dettagliati – attitudini, interessi, convinzioni – degli utenti analizzati allo scopo di arrivare a influenzarli attraverso messaggi tagliati, per così dire, su misura.

Nel 2015, informata della questione, Facebook elimina l’app. I dati raccolti dovrebbero essere eliminati da Cambridge Analytica. Così, secondo Wylie, non accade. Ma il fatto è che Facebook si decide a sospendere Cambridge Analytica (il 16 marzo) solo quando viene informata dell’imminente uscita – il 17 marzo – dell’inchiesta basate sulle rivelazioni di Wylie (il 18 marzo il network di Menlo Park ha sospeso anche il suo account personale). Intanto, nel 2016 si è tenuto il referendum Brexit con la vittoria del leave e Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali. Due cause sostenute da Cambridge Analytica.

Così i riflettori si puntano su Mark Zuckerberg, fondatore e capo di Facebook. Parlamentari Usa e del Regno Unito chiedono di ascoltarlo, mentre il presidente del Parlamento Europeo, Tajani, annuncia indagini approfondite. Perché il fatto è che, oltre a dover accertare le responsabilità di Cambridge Analytica – il procuratore speciale Robert Mueller, che negli Usa indaga sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016, ha chiesto alla società la documentazione sulle sue attività – la vicenda dimostrerebbe l’incapacità di Facebook di proteggere la riservatezza dei propri utenti. Inoltre, Facebook avrebbe, addirittura taciuto per due anni su una violazione di cui era al corrente. E il titolo del network subisce, ieri, il suo peggior risultato a Wall Street dal 2012: -7%.

Ma le conseguenze rischiano di essere molto più estese. Perché, oggi, tutti noi siamo messi di fronte all’evidenza: affidare, non tanto i dati cosiddetti “sensibili”, ma pezzi delle nostre vite, incluse le nostre convinzioni più profonde, alla più grande infrastruttura creata nella storia umana, significa esporci a conseguenze imprevedibili. Come consegnarci a relazioni per nulla sicure.

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