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Digitale

Digitale, storia e cronaca dell’arretratezza italiana (ed europea)

L'approfondimento di Carlo Terzano

In un mondo sempre più globalizzato e sempre più preda dei sovranismi, l’Unione europea rischia di trovarsi esposta alle bordate di Cina e Usa e, soprattutto, di limitarsi a schierare sulla scacchiera mondiale imprese che, se comparate con le dirette competitors, sono poco più dei nanerottoli, anche a causa delle leggi comunitarie contro i monopoli.

In una recente analisi pubblicata sul Sole 24 Ore, il professor Fabrizio Onida scrive: «il nuovo mondo digitale presenta caratteristiche nuove che sarebbe miope trascurare, tra cui: enormi economie di scala (nei servizi più che nei manufatti); esternalità di rete da cui dipendono vantaggi di posizione dei maggiori protagonisti (incumbent); ruolo cruciale dell’accesso ai big data». Tutti settori nei quali siamo molto, troppo indietro, che rischiano di rendere la Vecchia Europa ancora più “vecchia”.

LA SITUAZIONE ITALIANA. L’ALLARME DI BANKITALIA

Di fronte ad avversari tanto competitivi sarebbe sciocco ritenere che ci si possa difendere alzando i muri – fragili e ormai anacronistici – del protezionismo. Sebbene l’analisi di Onida abbia un respiro europeo, i ritardi italiani in materia sono tanti e tali da meritare necessariamente un approfondimento a parte, anche perché rappresentano l’estremizzazione degli handicap europei. Ritardi più volte denunciati dal Governatore della Banca D’Italia, Ignazio Visco, durante le sue “considerazioni finali” che hanno accompagnato la presentazione della relazione annuale dell’Istituto sul 2018.  In quell’occasione, infatti, il numero 1 di Bankitalia aveva lanciato un allarme chiaro, che pure in pochi hanno raccolto: «L’Italia – aveva dichiarato Visco – ha risposto con ritardo alla rivoluzione tecnologica: ne ha risentito marcatamente la crescita economica. Ai settori che compongono l’economia digitale è oggi riconducibile il 5 per cento del totale del valore aggiunto, contro circa l’8 in Germania e una media del 6,6 nell’Unione europea»

LE CAUSE DEL RITARDO

Il governatore della Banca d’Italia individuava nella «struttura produttiva frammentata, in gran parte composta da aziende piccole, con un alto grado di sovrapposizione tra proprietà e gestione, poco aperte a innesti esterni di capitale, tecnologia e professionalità» le cause del ritardo italiano. «Nel 2017 – aveva aggiunto Visco – meno di un quinto delle imprese con un numero di addetti compreso tra 20 e 49 aveva adottato almeno una tecnologia avanzata, come le applicazioni della robotica e dell’intelligenza artificiale. La quota sale a un terzo tra le imprese medie e supera la metà per quelle con 250 addetti o più. Il divario tra imprese piccole e grandi si amplia al crescere del grado di complessità delle tecnologie considerate».

POSSIBILI RIMEDI

Nella relazione, Banca d’Italia non si limitava a fare emergere i problemi, buttando sul tappeto anche le possibili soluzioni, tra cui gli incentivi pubblici per la nascita, lo sviluppo e la proliferazione di realtà innovative.

STARTUP IN ATTESA DEL MILIARDO PROMESSO DA DI MAIO

Sembrava andare nella direzione giusta il Fondo Nazionale per l’Innovazione (leggi anche: Cosa c’è nel Fondo Cdp per l’innovazione voluto da Di Maio che ridimensiona Invitalia) da 1 miliardo – in origine dovevano essere circa 3 -, annunciato in pompa magna dal Ministro allo Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, poi rimasto fermo al palo.

CHE COS’E’ IL FONDO GESTITO DA CDP

Lo strumento operativo di intervento del Fondo Nazionale sarà il Venture Capital, vale a dire investimenti diretti e indiretti in minoranze qualificate nel capitale di imprese innovative con Fondi generalisti, verticali o Fondi di Fondi, a supporto di startup, scaleup e PMI innovative. Con l’acclarata finalità di «difendere l’interesse nazionale contrastando la costante cessione e dispersione di talenti, proprietà intellettuale e altri asset strategici che nella migliore delle ipotesi vengono “svendute” all’estero con una perdita secca per il sistema Paese». Il Fondo Nazionale Innovazione è un soggetto (SGR) multifondo.

AUMENTANO GLI INVESTIMENTI MA NON BASTA

Mentre le startup restano in attesa del Fondo statale, qualche – modesto – segnale arriva per fortuna dal mondo privato. Secondo il recente report curato da StartupItalia, nei primi sei mesi del 2019 sono stati investiti in startup italiane (ma il novero comprende anche quelle fondate da italiani all’estero, perciò va preso con le dovute cautele) 362 milioni di euro, tra 34 round (aumenti di capitale), operazioni di crowdfunding (per un totale di 18 milioni) e le exit. Rispetto allo scorso anno e, soprattutto, al 2017, annus horribilis per quel mondo tutto italiano, il miglioramento c’è ed è notevole, ma resta evidente il gap che ci separa da altre piazze europee, quali quella parigina (che gode di importanti iniezioni di denaro pubblico), quella londinese o anche semplicemente quella spagnola (per ulteriori informazioni si vedano i report di Tech.eu, Stripe e Techstars), mentre Milano è solo 29esima nella classifica europea. Roma addirittura 31esima.

IL DIGITAL DIVIDE FOTOGRAFATO DALL’ISTAT

Si potrebbero citare altre classifiche certamente poco meritorie per il Paese, dai ritardi nell’industria 4.0 al fatto che l’Università italiana sia da tempo incapace di comunicare con il mondo del lavoro. Per non parlare persino dei numeri sulla dispersione scolastica che ci fanno indietreggiare a livelli da Terzo Mondo. La fotografia migliore, però, è quella sul “digital divide”, il divario digitale tra chi usa strumenti moderni e chi no, vera e propria barriera all’inclusione del mondo odierno.  Secondo il rapporto dell’Istat “Ict, cittadini e imprese 2018”, nel 2018 la quota di famiglie che hanno avuto accesso a Internet da casa mediante banda larga è salita al 73,7% dal 70,2% del 2017. Il 94,2% delle imprese con almeno 10 addetti si è connessa in banda larga mobile o fissa. Numeri incoraggianti, ma che ancora non sono sufficiente a renderci competitivi.

L’83% DELLE AZIENDE NON INVESTE SULLE COMPETENZE DIGITALI

Sebbene siano aumentate dal 12,9% al 16,9% le imprese che investono sulle competenze digitali provvedendo alla formazione dei propri addetti, è chiaro che la strada da percorrere sia ancora troppo lunga visto che c’è ancora un 83,1% che non fa nulla di tutto ciò. E si potrebbe continuare, citando i dati che immortalano la diffidenza del consumatore italiano rispetto al pagamento digitale e, soprattutto, cosa è stato fatto nel frattempo dai nostri vicini di casa nel tentativo di rendere ‘tecnologicamente onnivora’ le rispettive popolazioni.

Se è dunque innegabile, come scrive Onida sul Sole, che serve che l’Unione europea investa nel digitale per affrontare le sfide di un futuro sempre più imminente e incombente, è altrettanto vero che all’interno del Vecchio Continente ci sono Stati come il nostro drammaticamente indietro, che attendono da troppo tempo il semplice passaggio al mondo moderno.

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