La scoperta che Facebook ha venduto i dati dei propri utenti alla società Cambridge Analytica, che li avrebbe poi profilati a fini di propaganda elettorale, è stata enfatizzata a livello politico e mediatico come un clamoroso caso di manipolazione. Sicuramente per nostro limite culturale e intellettivo, tendiamo invece a interpretare la notizia come una banalità. Intanto, il concetto di persuasione di massa rimanda al determinismo della teoria ipodermica, ormai abbandonata dalle scienze sociali e della comunicazione in favore di analisi più complesse, circolari o a rete, dei processi con cui i messaggi vengono recepiti e restituiti in forma di risposta (nel caso specifico, il comportamento atteso è ovviamente quello del voto). Al di là delle interpretazioni astratte è soprattutto il dato empirico, quindi il comportamento degli elettori e dei cittadini, ultimo caso l’inattesa vittoria di Donald Trump, a dimostrare quanto tali processi siano difficili da prevedere e indirizzare.
D’altro canto, poi, pagare l’uso dei social con i nostri dati sensibili ci appare uno scambio non troppo iniquo. Tutto sommato, il famoso motto per cui quando non si paga un prodotto significa che il prodotto siamo noi non ci sconvolge, ci sembra anzi assurda la pretesa di usufruire in totale gratuità di servizi ormai fondamentali per il nostro stile di vita. Infine, possiamo ben presumere che ad aver accentuato il clamore sul Datagate sia stato l’aspetto politico: quando è possibile sparare su un presepe corposo come Donald Trump il fuoco di fila aumenta notevolmente e talvolta pretestuosamente. L’ha scritto persino un osservatore certo non reazionario come Massimo Gramellini, l’ha ribadito Steve Bannon, l’ex stratega di Trump vicepresidente di Cambridge Analityca, commentando il caso di Facebook: “Nel 2008 furono i giovani di Google e Fb ad avvicinare Obama in aeroporto per spiegargli l’importanza dei loro dati, lo sapevano tutti nessuno ne ha parlato”. In effetti il precedente inquilino della Casa Bianca è stato il primo a spostare in modo massiccio il baricentro della propria propaganda verso il contatto individuale operato mediante canali digitali, come tra gli altri ha illustrato un saggio di Gianpiero Gamaleri.
Sul piano pratico sarebbe forse meglio concentrare le energie e le indignazioni sugli irrisolti aspetti fiscali che investono l’imprenditoria social e web, più che su quelli di privacy: che Mark Zuckerberg guadagni pure con i nostri dati sensibili, purché paghi le tasse in misura adeguata! Più che il ditone di Facebook, sarebbe utile guardare le tante piccole lune che – a nostro avviso – indicano in modo emblematico l’incoerenza del rapporto così pervasivo con i social network e con la multimedialità. Dovremmo cioè concentrare l’attenzione sulle nostre responsabilità di utenti, stante che i colossi del web perseguiranno sempre e solo i loro interessi.
Nei giorni scorsi, per esempio, è stata strombazzata ai quattro venti la notizia che Roma è la terza meta al mondo più amata dai turisti, fonte Trip Advisor. Ora, ci sono un paio di semplici cose che la dicono lunga sul più famoso social di recensioni di viaggio e gastronomia: da un lato i gestori possono replicare alla segnalazione sgradita con un commento di qualunque genere senza che il recensore possa rispondere né abbia la concreta possibilità di far cancellare il post; dall’altro, la qualità e la credibilità delle recensioni pubblicate, positive o negative, è inesistente. Al di là della sterminata presenza di stroncature o encomi a cinque pallini (eccellente) o un pallino (pessimo), titolati con punti esclamativi e a dir poco generici, in gran parte riconducibili al superficiale manicheismo di tanti avventori, il controllo del social è talmente lacunoso che capita di veder pubblicata come recensione una richiesta di informazioni, come l’illustrazione di questo articolo attesta. Lo spazio per le inserzioni e le pubblicità mascherate è ovviamente amplissimo.
Prendere una fregatura in un ristorante scelto in base ai giudizi letti sui social non è la morte di nessuno, ma decretare malevolmente la morte mediatica di un esercente onesto è un problema molto più serio e comunque il problema sociale è prima di tutto l’inconsapevolezza con cui usiamo questi strumenti e poi che ad assumerli come oro colato siano gli altri media, le istituzioni e gli stakeholder, secondo una circolarità viziosa in cui anche professionisti e testate registrate non garantiscono il controllo. L’informazione giornalistica troppo spesso veicolare qualunque presunta notizia compaia in rete, rinuncia al riscontro della seconda fonte, non esercitare il prezioso filtro del dubbio.
Nei giorni scorsi, i maggiori due quotidiani si sono invischiati nella propalazione di due articoli a dir poco imprecisi, uno di Repubblica sul compenso di Fabio Fazio, uno di Pierluigi Battista sul Corriere della sera riguardo al Cnel, seguiti dalla consueta rettifica: se nemmeno i pochissimi giornali e giornalisti che possono permetterselo assicurano serietà assoluta, come possiamo chiederla al web 2.0? E come giudicare la recensione a dir poco entusiastica che il critico del magazine del Corriere destina all’“impressionante” romanzo scritto dal capo della narrativa italiana Mondadori? I titoli spesso in fotocopia che poche ore dopo un incidente ferroviario danno per certe cause, soluzioni e responsabilità? La cronaca che non contestualizza, senza memoria storica, si tratti del lancio dei sassi dai cavalcavia con conseguenze purtroppo mortali che segue decine di eventi, oppure del crollo di un ponte che però, informa Milena Gabanelli, è solo uno dei 30 mila a rischio?