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Facebook, cosa penso della condanna per il post sul Duce. L’Opinione di Cazzola

Il commento dell'editorialista Giuliano Cazzola sull'ordinanza con cui il Tribunale civile di Chieti ha accolto il ricorso di un avvocato il quale in occasione del compleanno di Mussolini aveva postato su Facebook una foto del Duce

Nell’ordinamento italiano la giurisprudenza non è fonte del diritto. Le sentenze si riferiscono solo alla fattispecie che viene affrontata nel giudizio, si tratti di una controversia civile, amministrativa o di un reato penale. Ciò non significa che una giurisprudenza consolidata, soprattutto se proveniente dalla Suprema Corte di Cassazione, non debba orientare il giudice nel pronunciarsi e decidere del caso singolo. Nessun giudice è autorizzato, però, a riscrivere la storia e a reinterpretarla a modo suo.

Tutto ciò premesso, affidiamoci alla cronaca di un fatto molto grave, accaduto nel Tribunale civile di Chieti che, con ordinanza del 29 gennaio 2020, ha accolto il ricorso di un avvocato (del quale non riportiamo il nome anche se è uscito sui media) il quale in occasione del compleanno di Mussolini aveva postato una foto del dittatore insieme a una bandiera di combattimento del Rsi. Facebook aveva rimosso il post dell’avvocato — membro di Casapound — ritenendo che violasse gli standard della Community. L’avvocato ha fatto ricorso e il giudice chietino gli ha dato ragione, condannando Facebook al pagamento di 15mila euro di danni e 8mila euro di spese di giudizio. A questo punto sorge un primo dubbio: se Facebook è un soggetto privato e si è dato un codice di regole per la Community, a che titolo può essergli imposto di accettare anche chi le viola? Mettiamo subito le mani avanti. Chi scrive non è appassionato per la guerra ai simboli. Nella scorsa legislatura criticai un disegno di legge approvato dalla Camera e poi fortunatamente bloccato al Senato, con il quale veniva proibita anche la produzione e il commercio di gadget, pubblicazioni e quant’altro ricordassero il Ventennio. Considero però inaccettabili le motivazioni addotte dal Tribunale di Chieti.

Non mi sarei scandalizzato se l’ordinanza si fosse basata sul principio della libertà di pensiero, garantita dalla Costituzione all’articolo 21 (comma 1: ‘’Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di comunicazione’’). Il caso sarebbe stato quindi riconducibile ‘’all’esercizio del diritto costituzionale fondamentale di libertà di manifestazione del pensiero, avvenuto in modalità improntate a continenza e insuscettive di limitazioni'”. A fronte del riconoscimento dell’applicabilità di un principio siffatto al caso specifico, che bisogno c’era di infilarsi in giudizi storici odiosi sul piano etico, inaccettabili sul piano politico e discutibili su quello giuridico.

Torniamo alle cronache. Le motivazioni del giudice sono che Mussolini era un Capo di Stato italiano riconosciuto dalla Comunità giuridica internazionale e non fu oggetto di alcuna sentenza di condanna per attività illecite e la decisione della sua fucilazione non è ascrivibile a rango di pronuncia giurisdizionale. La condotta di Mussolini, per il giudice, non sarebbe stata difforme alle norme del diritto internazionale dell’epoca. “Quanto alla bandiera della Rsi — si legge nel post dell’avvocato difensore — il giudice ha osservato che la Repubblica Sociale si è manifestata nel diritto internazionale generale come soggetto pieno per la sua connotazione di effettiva sovranità.

Si tratta di una sentenza a dir poco discutibile. Uno dei principi più importanti del diritto internazionale è quello detto ‘’dell’effettività’’ (nel senso che un regime deve possedere effettiva sovranità su di un territorio). Ciò non significa che tale regime debba essere automaticamente riconosciuto dalla comunità internazionale o da tutti gli altri Paesi, ma è quanto solitamente accade, per ragioni pratiche e di opportunità politica. Attenzione però: come si fa notare nelle cronache che si sono occupate del processo, che Mussolini fosse riconosciuto dalla comunità internazionale è una condizione che si applica a tutti i dittatori, compreso Hitler (per arrivare a Pinochet e a tanti altri sulla terra). Non si deve mai fare confusione tra legalità e giustizia. Anche l’applicazione delle leggi razziali potrebbe essere ricondotta nel campo della legittimità. Hitler, poi, era l’unica fonte del diritto nella Germania nazista. Non avrebbe mai potuto violare la legge, perché nello stesso momento in ciò fosse avvenuto, quella stessa legge sarebbe stata abrogata e cambiata secondo i voleri del Fuhrer. Tanto che il regime non si era nemmeno preoccupato di abrogare la Costituzione di Weimar.

Tornando all’ordinanza di Chieti, essa arriva a rasentare prima ancora che l’apologia, il fariseismo, quando applica ad un dittatore la presunzione di innocenza fino a sentenza di condanna passata in giudicato. Si sostiene, infatti, nell’atto giudiziario che Mussolini non era stato ‘’oggetto di alcuna sentenza di condanna per attività illecite e la decisione della sua fucilazione non è ascrivibile a rango di pronuncia giurisdizionale’’. Bel colpo! Immaginiamo che l’aggressione dell’Etiopia sia avvenuta secondo la legge di quei tempi; di certo i tribunali speciali, l’abolizione dei partiti, le condanne a decine di anni per attività sovversiva, la persecuzione dei reati d’opinione, la “villeggiatura’’ al confino erano stati istituiti con atti formali, addirittura con modifiche apportate allo Statuto Albertino. Poi anche la dichiarazione di guerra alla Francia e al Regno Unito era stata assunta da chi aveva il potere di farlo.

E allora come avrebbe potuto esprimersi una pronuncia di rango giurisdizionale? Come a Norimberga? Ma quello storico processo aveva davvero un fondamento giurisdizionale oppure rappresentava un modo di denunciare, sul piano prevalentemente politico, i misfatti di un regime abietto e i suoi crimini contro l’umanità? Se poi si vuole, a fortiori, trovare una base giuridica all’esecuzione di Mussolini, la condanna fu decisa dal Clnai (Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia), le cui azioni erano autorizzate dal Governo di Ivanoe Bonomi, 63esimo Gabinetto del Regno d’Italia, che aveva riconosciuto la Resistenza partigiana e aveva dato validità legale a ogni atto. Ovviamente, fatti storici di questa complessità non possono essere affrontati in un’Aula di giustizia, anche perché non è scontato trovare, nel diritto positivo, norme applicabili a chi calpesta i diritti naturali ed universali dell’umanità, se è lui stesso il legislatore.

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