Nella partita per l’intelligenza artificiale (IA) tutti vogliono essere vincitori e ognuno fa il proprio gioco. Gli Stati Uniti, patria delle Big Tech, ci hanno investito più di chiunque altro ma ora la scure del presidente Donald Trump si è abbattuta sulla maggior parte dei 200 esperti assunti dalla precedente amministrazione e Amazon e Microsoft lanciano segnali che indicano un rallentamento nella costruzione di nuovi data center.
Intanto, la Cina, senza che nessuno se ne accorgesse, ha lavorato in sordina, spendendo pochissimo e ottenendo risultati che hanno fatto tremare la Silicon Valley.
La Russia, presa da altre questioni, sta sfruttando i chatbot disponibili come cavalli di Troia per rilanciare fake news provenienti dalla sua rete di propaganda Pravda.
E infine, l’Unione europea, costretta a rendersi autonoma dagli Stati Uniti, ha annunciato uno dei suoi super piani per avere un qualche ruolo in una competizione che, come spesso accade, la trova in ritardo. La sua ambizione però, secondo la Corte dei conti europea, non è affatto realistica.
LA CACCIATA DEGLI ESPERTI DI IA NEGLI USA
Nel taglio indiscriminato di dipendenti del governo federale degli Stati Uniti, avvenuto in gran parte per mano di Elon Musk, sono finiti anche molti degli esperti di intelligenza artificiale assunti – non senza difficoltà, considerate le retribuzioni del settore privato – sia dall’amministrazione Biden che nei primi mesi di mandato di Trump.
Tuttavia, questa scelta stride con la volontà di primeggiare e con gli ordini esecutivi firmati dal presidente per sostenere l’IA e, dunque, secondo alcuni funzionari che hanno parlato con il Time, si tradurrebbe soltanto in “un enorme spreco di risorse governative”. Solo il 3 aprile, Russell Vought, direttore dell’Office of Management and Budget, ordinava alle agenzie di “concentrare gli sforzi di reclutamento su persone che abbiano dimostrato esperienza operativa nella progettazione, nell’implementazione e nella scalabilità di sistemi di IA in ambienti ad alto impatto”.
Molti di questi lavoratori, a quanto pare, lavoravano già per il governo federale, che ora dovrà impiegare tempo e denaro per trovare una nuova schiera di esperti, i quali presumibilmente avranno più di un dubbio a lasciarsi coinvolgere.
Angelica Quirarte, una reclutatrice assunta dall’amministrazione Biden per selezionare esperti di IA e che ha contribuito ad assumerne circa 250 in meno di un anno, ha stimato che circa il 10% di loro lavora ancora per il governo federale. Lei, tuttavia, si è dimessa 23 giorni dopo l’inizio della presidenza Trump. “Non era un ambiente in cui si presumevano buone intenzioni – si operava per paura – ha detto al Time -. Non è un ambiente in cui si può fare una buona politica e un buon lavoro di governo”.
IL PASSO INDIETRO DI MICROSOFT E AMAZON SUI DATA CENTER
Negli ultimi due anni le Big Tech della Silicon Valley hanno speso decine di miliardi di dollari in chip e nuovi data center con l’obiettivo di non avere rivali. Ora, però “mentre le gru di costruzione oscillano e i server rack si accumulano, emergono i primi segnali di contenimento”, scrive Quartz.
Stando infatti a un rapporto di Wells Fargo della scorsa settimana, Amazon Web Services ha sospeso le trattative per alcuni nuovi contratti di locazione di data center, soprattutto all’estero, mentre Microsoft si è mossa in modo simile a febbraio, cancellando i piani per circa due strutture di potenza di calcolo. Entrambe, tuttavia, tentano di rassicurare affermando che gli accordi firmati rimangono in vigore e hanno descritto la strategia come una normale gestione della capacità.
“L’espansione dell’IA è reale, ma il ritmo potrebbe cambiare – commenta Quartz -. Mentre i fornitori di cloud sostengono pubblicamente che i piani di espansione sono invariati, le recenti pause nei contratti di locazione suggeriscono una ricalibrazione più cauta dietro le quinte, un segnale che il boom dell’IA potrebbe non avanzare alla velocità inarrestabile prevista da aziende come Amazon e Microsoft”.
POCHI RISULTATI E COSTI FUORI CONTROLLO
Una spiegazione, ipotizza la testata statunitense, è il semplice eccesso di impegno e i costi eccessivi, che si stanno facendo sentire. Una singola interrogazione ai modelli più avanzati di OpenAI infatti può costare fino a 1.000 dollari di sola potenza di calcolo e nonostante il prezzo di 200 dollari al mese per l’accesso premium a ChatGPT, lo stesso Sam Altman, Ceo della software house, ha dichiarato a gennaio che il servizio in abbonamento non è ancora redditizio. Ma oltre a lui anche altri dirigenti del settore tech stanno riconoscendo il divario tra i successi e i risultati.
Secondo un recente studio riportato da Quartz e condotto da ricercatori della Georgetown University, di Epoch AI e della RAND Corporation, se le tendenze attuali dovessero confermarsi, entro il 2030 i principali data center di IA potrebbero costare 200 miliardi di dollari ciascuno, contenere due milioni di chip di IA e richiedere una potenza pari a quella di nove reattori nucleari.
Inoltre, il divario tra la spesa per le infrastrutture e le entrate generate dall’IA continua ad aumentare. In un’analisi del giugno 2024, David Cahn, partner di Sequoia Capital, ha stimato che questo si è trasformato in un buco di 600 miliardi di dollari, rispetto ai 200 miliardi di appena nove mesi prima.
LA CINA CONTINUA IL SUO GIOCO
Mentre gli Stati Uniti sembrano andare in ritirata, Alibaba oggi ha lanciato Qwen 3, una versione aggiornata del suo modello di punta di intelligenza artificiale che introduce nuove capacità di ragionamento ibrido. La novità, secondo Reuters, arriva “in concomitanza con l’intensificarsi della concorrenza nel settore dell’IA in Cina, stimolata dal successo della startup locale DeepSeek all’inizio di quest’anno”.
Anche Baidu, per esempio, leader cinese della ricerca, venerdì scorso ha rilasciato i modelli Ernie 4.5 Turbo ed Ernie X1 Turbo, incentrati sul ragionamento.
LE PUTINATE DEI CHATBOT
Ma nonostante il loro rapido avanzamento, i chatbot non sono immuni alle insidie. Come riporta il Corriere, uno studio pubblicato a marzo da NewsGuard, organismo indipendente che monitora la disinformazione online, ha fatto notare che alcuni tra i più diffusi modelli linguistici generativi, tra cui ChatGPT-4o di OpenAI, Microsoft Copilot, Google Gemini e Meta AI, se messi alla prova, hanno rilanciato fake news provenienti dalla rete di propaganda russa Pravda.
E non si tratta delle solite “allucinazioni” dell’IA bensì “sono il prodotto di un’operazione metodica di inquinamento informativo”. Lo studio afferma infatti che “solo nel 2024 oltre 3,6 milioni di articoli di propaganda russa sono stati incorporati nei contenuti utilizzati dai chatbot per generare risposte”. Il che significa che i modelli “sono stati indottrinati attraverso una disseminazione capillare e intenzionale di contenuti propagandistici su siti, forum e archivi digitali che alimentano i modelli” e, dunque, oltre a diffondere fake news, colpiscono al cuore dell’infrastruttura dell’IA.
LA CORTE DEI CONTI EUROPEA BOCCIA L’UE
In tutto questo, l’Europa spera di avere un ruolo di rilievo con la sua iniziativa da 200 miliardi di euro InvestAI, che prevede tra l’altro di fornire il 20% del mercato mondiale dei microchip entro il 2030. Obiettivo definito “molto improbabile”, “essenzialmente aspirazionale” e “profondamente scollegato dalla realtà” secondo una relazione della Corte dei conti europea.
Nonostante infatti il Chips Act del 2022 abbia dato nuovo impulso al settore europeo dei microchip, è improbabile che gli investimenti da esso scaturiti migliorino la posizione dell’Ue in questo campo. Come ricorda infatti Eunews, la Commissione Ue è responsabile solo del 5% (4,5 miliardi di euro) degli 86 miliardi di euro di finanziamenti stimati dal Chips Act fino al 2030, che ci si attende vengano erogati dagli Stati membri e dall’industria.
Tuttavia, la Corte si dice scettica perché i principali produttori mondiali hanno previsto investimenti per 405 miliardi di euro in un solo triennio, dal 2020 al 2023, cifra rispetto alla quale l’impegno del Chips Act appare “modesto”.