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5G e la città hyper-connessa: utopie e distopie

Come possono cambiare i centri urbani con il 5G. L’approfondimento di Ottavio Carparelli, ex senior manager nel settore delle telecomunicazioni, oggi consulente in strategia aziendale

 

Questa serie di articoli su Start Magazine intende offrire spunti di riflessione su scenari possibili di trasformazione economica e sociale legati in maniera più o meno diretta alla disponibilità capillare di una infrastruttura di hyper-connettività (ossia una connessione estremamente rapida e con tempi di risposta brevi e deterministici, del tipo di quelle promesse a cominciare dall’avvento generalizzato della 5G). Oggi ci soffermiamo sul legame tra l’hyper-connettività e i centri urbani.

Cominciamo a fare alcune considerazioni sulla cosiddetta crisi del centro urbano. Se ne parla ormai da tanti anni, ma in realtà la crisi, dolorosa ed altamente trasformativa, era passata attraverso una serie di fasi contraddittorie negli ultimi tempi, addirittura con aspetti di controtendenza. Procediamo per ordine. Il paese che aveva per primo evidenziato il problema del “centro urbano in crisi”, molti anni fa, erano stati gli Stati Uniti. Lì si era assistito, in molte città, al consolidarsi di una situazione in cui il centro città era spesso diventato una zona “poco raccomandabile” (almeno nelle ore dopo il lavoro) con pochi negozi e locali aperti, e spesso malfamati, con livelli di crimine elevati. I negozi e ristoranti si erano spostati verso la periferia, dove c’era più spazio per i parcheggi, le zone commerciali potevano essere controllate, ed era possible passare l’intera serata facendo shopping, andando al ristorante, e magari vedere un film o andare ad una sala giochi per bambini o adolescenti, tutto in uso spazio ristretto, pratico e sicuro. Insomma si era assistito al boom dei mega centri commerciali a discapito della passeggiata in centro, che in quelle città americane non aveva una tradizione sociale e culturale. Col passare del tempo, abbiamo assistito alla propagazione del modello “centrifugo”, in cui il cuore commerciale delle città e cittadine si è spostato verso la periferia (i grandi centri commerciali), in alcuni posti più rapidamente, in altri meno. Poi però abbiamo assistito, in tempi più recenti ed in modo non omogeneo, a cambiamenti di tendenza. Il fenomeno culturale del km 0, l’associazione del mega centro commerciale con problemi ecologici e ideologici (il prodotto mondializzato e banalizzato), l’estensione dei problemi di traffico alla periferia, l’imbellimento e pedonalizzazione dei centri urbani, gli accorgimenti legati alla sicurezza (molte città nel mondo hanno installato telecamere ed aumentato la presenza di polizia), la trasformazione dei commerci (più bar, caffè, ristoranti, negozi con prodotti non ingombranti, prodotti “speciali” che mettono in avanti un acquisto di impulso più che di necessità, ecc.), la creazione di mercatini, e tante altre iniziative, più o meno pilotate dalle amministrazioni, hanno portato ad una riappropriazione parziale del centro urbano, al ritorno del “passeggio” in centro (e persino le grandi insegne dei centri commerciali hanno cominciato a riaprire I minimarket di prossimità), mentre I grandi centri commerciali hanno cominciato a soffrire in maniera ancora più evidente la concorrenza del commercio in linea.

Ma questo contro-fenomeno, ancora fragile, sembra essere stato messo in discussione nei mesi recenti, in conseguenza o in concomitanza della pandemia di Covid.

Restare a casa ha portato all’estensione del commercio in linea anche a quei settori che erano stati riconquistati dal centro città. Anche I ristoranti ed i negozi di prossimità, hanno cominciato a fare una buona parte dei loro introiti via ordini su internet, il commercio spontaneo (conseguenza della passeggiata) è ovviamente diminuito (visto che si passeggiava poco o niente). Ma I fattori più o meno temporanei di cambiamento del modello di acquisto sono solo la punta dell’iceberg (durante il lock-down il commercio in città ha, di fatto, sofferto meno del commercio nei grandi centri commerciali), in realtà stiamo osservando potenziali problemi ben più profondi e strutturali. Molte più persone stanno scegliendo di non farsi sorprendere di nuovo dalla pandemia in un piccolo appartamento in centro, insomma: una casa con terreno e un po’ più grande è meglio per affrontare un lock-down. Il lavoro da casa si sta normalizzando, e quindi non c’e’ bisogno di essere molto vicini al luogo di lavoro. L’offerta di programmi dal vivo (anche di musica e teatro) sulla rete è esplosa, e quindi la calamita culturale è meno potente. Anche il ristorantino thailandese sa farci arrivare il cibo a casa. Insomma la fattibilità di andare a passeggiare in centro sta sparendo, visto che in centro non ci abitiamo più … del resto molte città stanno vivendo l’aumento improvviso del numero di appartamenti sfitti, segnale premonitore di spegnimento di insegne commerciali.

Uno scenario del genere non può essere accettabile per le amministrazioni cittadine. Il degrado del centro è il degrado della comunità che si rappresenta. E’ necessario reagire nello stesso modo in cui si è reagito in passato, quando il termine di paragone, se non il nemico, era il mega-centro commerciale. Di nuovo, l’obiettivo è di favorire l’installazione di una infrastruttura che renda il centro interessante, ma questa volta il termine di paragone non è il centro commerciale di periferia, ma l’esperienza in linea.

Quali sono gli aspetti positivi dell’esperienza in linea a cui bisogna saper rispondere? La lista può essere lunga. Cerchiamo di listarne un paio che giocano probabilmente un ruolo in questa discussione: in linea io sono “riconosciuto” e quindi mi si propongono cose che mi piacciono, il negozietto in cui entro mentre passeggio spesso non mi conosce, non può propormi prodotti e promozioni mirate; in linea posso acquistare in modo molto semplice e farmi recapitare gli oggetti in un luogo dove non ingombrino, le procedure di acquisto e di definizione del recapito sono ormai spesso più lunghe e complesse in negozio. Le mie sono generalizzazioni che si applicano molto spesso perché io acquisto regolarmente su un numero limitato di “posti” in linea, per esempio io acquisto regolarmente su Amazon, che non è più un negozio ma un centro commerciale in cui vendono tanti negozi, grandi e piccoli.

Quindi come fare in modo che il centro di “Ovunque”, provincia d’Italia, possa posizionarsi come alternativa o complementarità al centro commerciale “Amazon”. Ed è qui che la discussione sui centri città intercetta la discussione sulla hyper-connettività. E’ possibile immaginare che Ovunque, provincia d’Italia, abbia messo in piedi una infrastruttura che mi riconosca, e che mi faccia delle proposte mentre passeggio in centro, e che quindi metta a disposizione mia e dei negozi del paese dei mezzi di pagamento e di consegna che mi vadano bene, cosi’ semplici e preconfigurati come quelli di cui dispongo su Amazon, magari combinati con i vantaggi associati “alla fedeltà”, per esempio se uso la consegna Amazon Prime ho anche accesso ai film e programmi Amazon, perchè non dovrei avere accesso a riduzioni sui miei biglietti per gli spettacoli o per le mie cenette in centro quando faccio shopping locale?

E l’applicazione Ovunque-Centro potrebbe darmi tantissime altre cose utili e piacevoli (aspetti di sicurezza, aspetti di partecipazione ludica, informazioni culturali e pratiche, capacità di ricerca, realtà aumentata, ecc.) che renderebbero la mia passeggiata in centro una vera bella esperienza, che magari potrebbe anche essere vissuta in modo appena meno “bello” da casa, quando piove o si è in lock-down. Un’amministrazione che volesse costruire e mettere a disposizione un’infrastruttura di hyper-connettività di questo tipo dovrebbe trovare il modo di finanziarla, magari evitando che il costo cada sugli utenti (consumatori e piccoli esercenti) ma facendo leva su terzi interessati, fermo restando che si tratta qui di un’iniziativa anche strategica per permettere al centro di rifiorire ed evitare il degrado. E’ chiaro che qui non si possono e non si devono nascondere i rischi distopici. Un luogo che mi conosca può rapidamente diventare un luogo che mi controlla. Il terzo interessato che investe nell’infrastruttura per il bene del centro, può rapidamente accampare diritti e inquinare culturalmente se non ambientalmente. L’amministrazione può usare l’infrastruttura per auto pubblicizzarsi e quindi mantenere il potere, e così via … Ma vale la pena di riflettere sul fatto che questi fattori sono esattamente quelli con cui dobbiamo fare i conti in linea. In questo momento della nostra evoluzione sociale, abbiamo tendenza ad accettare questi rischi distopici davanti ad un telefonino o ad un computer, e a non accettarli quando sono messi in moto in un contesto non virtuale. Varrebbe la pena che l’amministrazione di Ovunque, provincia d’Italia, cominci a porsi queste domande, prima che diventino inutili perché Ovunque si è svuotata.

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