Un recente approfondimento del New York Times avverte: la Cina sta diventando la superpotenza del nucleare. Pechino ha infatti in cantiere quasi tanti reattori quanto il resto del mondo messo insieme e, entro il 2030, supererà gli Stati Uniti in capacità installata.
Partita da design americani e francesi, la Cina ha tagliato i tempi di realizzazione dei progetti a 5-6 anni e i costi della metà, mentre l’Occidente arranca con ritardi e miliardi bruciati.
Pechino inoltre innova: possiede reattori di quarta generazione già operativi, e controlla fusione, torio e riciclo del combustibile. L’obiettivo? Esportare impianti chiavi in mano e tessere influenza geopolitica duratura.
Gli Usa reagiscono con l’innovazione privata: start-up, reattori modulari piccoli (SMR), miliardi da Google, Amazon e OpenAI per nutrire data center e AI. Ma senza standardizzazione, catene di fornitura solide e una regia statale, l’America rischia di restare indietro.
È una corsa tra modelli opposti – centralismo cinese contro mercato americano – con in palio energia, tecnologia e leadership del secolo.
La Cina alla conquista del nucleare globale
Bisogna immaginare – scrive il Nyt – cantieri che brulicano giorno e notte, gru che issano cupole di cemento armato grandi come il Campidoglio, vagoni carichi di recipienti d’acciaio speciale che arrivano puntuali da Shanghai.
È la Cina che corre: ha in cantiere quasi tanti reattori quanti ne costruisce il resto del pianeta. Entro il 2030 la sua capacità nucleare supererà quella degli Stati Uniti, i primi a domare l’atomo per l’elettricità.
Il dominio in pannelli solari e auto elettriche era prevedibile; il nucleare è la sorpresa. I suoi reattori sono derivati da progetti Westinghouse e Areva, ma assemblati in metà tempo e a costi crollati del 50% negli anni 2000, poi stabilizzati.
Pechino non copia soltanto: ha acceso il primo reattore commerciale di quarta generazione a gas, capace di fornire calore all’industria oltre all’elettricità; investe miliardi in fusione, reattori al torio e riciclo del combustibile esausto.
Inoltre vuole sedere al tavolo degli esportatori, insieme a Usa, Russia, Francia e Corea del Sud. Mark Hibbs, esperto del Carnegie Endowment, è netto: “Si muovono velocissimi e vogliono dimostrare al mondo che il loro programma è inarrestabile”.
L’energia è ormai un’arena geopolitica. Con Trump gli Usa si ergono a campioni dei fossili; la Cina domina nelle rinnovabili e ora nel nucleare. Quest’ultimo vive un rinascimento globale: zero emissioni, produzione 24/7, complemento perfetto a sole e vento.
Washington punta a quadruplicare la capacità entro il 2050, con tecnologie per data center e mercati esteri. Ma il timore della concorrenza cinese è concreto: chi costruisce il reattore all’estero crea legami tecnici, formativi, di manutenzione che durano decenni, dominando il futuro di interi Paesi.
Il segreto del successo costruttivo cinese
Costruire un impianto nucleare è come orchestrare una cattedrale high-tech, rileva il Nyt: il recipiente del reattore, fatto di acciaio spesso 25 cm, deve resistere per sessant’anni alle radiazioni; la cupola di contenimento è un colosso di cemento armato; migliaia di chilometri di tubi e cavi devono rispettare standard di sicurezza assoluti. Un intoppo e i costi schizzano.
La Cina ha trasformato il caos in sinfonia. Tre aziende statali ricevono prestiti agevolati – il finanziamento pesa un terzo del totale – e la rete elettrica acquista energia nucleare a tariffe garantite. Soprattutto, Pechino costruisce pochi modelli, ripetuti all’infinito. “Standardizzare è la chiave per scalare”, spiega Joy Jiang del Breakthrough Institute, Questo significa autorizzazioni più rapide e supply chain oliata.
Un mandato nazionale chiaro permette investimenti sicuri: vicino Shanghai, forni giganti producono recipienti senza sosta; squadre di saldatori specializzati migrano da un cantiere all’altro come nomadi high-tech.
La Cina ha affrontato gli stessi problemi iniziali dell’Occidente – pompe di raffreddamento difettose, forniture incerte – ma invece di arrendersi ha fatto una pausa, studiato ogni errore, adattato i progetti e creato catene di fornitura interne.
Oggi nove varianti CAP1000 avanzano in parallelo, con il completamento previsto in cinque anni a costi irrisori rispetto agli standard Usa.
Le norme di sicurezza cinesi sono severe quanto quelle occidentali, ma l’iter è prevedibile: niente ricorsi, con i cantieri che partono settimane dopo l’ok finale. Negli Usa i permessi statali richiedono mesi o anni.
Come spiega David Fishman, consulente del Lantau Group: “La Cina sa gestire mega-opere – dighe, autostrade, alta velocità – e trasferisce le stesse competenze al nucleare”.
Il nucleare cinese nel mix energetico nazionale
La Cina è il maggiore emettitore mondiale, ma vuole cambiare. Sole e vento crescono a ritmi vertiginosi, coprendo già gran parte della nuova capacità pulita. Eppure il carbone resta il pilastro quando il sole tramonta o il vento cala.
Il nucleare entra in gioco come base affidabile, pulita, in grado di sostituire progressivamente le centrali a carbone. Nelle province costiere come Guangdong e Zhejiang già fornisce il 10-15% dell’elettricità. L’obiettivo nazionale è il 15% entro il 2035, affiancato da un boom delle rinnovabili. Senza nucleare, il carbone dominerebbe per altri decenni.
Ma la strada è in salita. Nel 2021 una piccola perdita radioattiva a Taishan ha fatto tremare l’opinione pubblica; un incidente grave potrebbe scatenare proteste di massa.
La gestione delle scorie resta irrisolta: non esistono siti di stoccaggio definitivo, e alcune città hanno bloccato impianti di ritrattamento con inusuali manifestazioni.
Inoltre Pechino ha imposto una moratoria sui reattori nell’entroterra per il consumo d’acqua; se confermata, limiterà l’espansione del processo.
Ciononostante la marcia della Cina continua: centinaia di reattori sono previsti entro la metà del secolo. Il nucleare è anche sicurezza energetica – Pechino importa l’80% del petrolio – e possiede autonomia sulle materie prime. I reattori al torio (di cui ha riserve abbondanti) e il riciclo del combustibile esausto ridurranno le importazioni di uranio e il volume di rifiuti.
La risposta Usa
Negli Stati Uniti il nucleare unisce Repubblicani e Democratici, spinto da una domanda elettrica che esplode, soprattutto per l’intelligenza artificiale. Anche figure storicamente critiche come Al Gore oggi lo difendono.
La strategia americana però è diversa: decine di start-up puntano su reattori modulari piccoli (SMR), più economici e veloci da costruire. Google, Amazon e OpenAI investono miliardi in Kairos Power, X-Energy, Oklo per alimentare i data center.
I primi progetti sono partiti in Wyoming, Texas, Tennessee; ma i reattori diventeranno operativi non prima degli anni ’30.
L’amministrazione Trump accelera deregolamentando la Nuclear Regulatory Commission, accusata di essere troppo rigida. Il segretario all’Energia Chris Wright è ottimista: “il capitalismo imprenditoriale è il nostro asso nella manica contro una Cina centralizzata”.
Eppure molti esperti temono che si scommetta troppo sull’innovazione tecnologica e troppo poco su ciò che davvero conta: finanziamenti prevedibili, competenze, infrastrutture.
Gli Usa hanno perso quasi tutta la capacità di forgiatura pesante per i grandi componenti. Troppi design concorrenti generano caos, come nota Philip Andrews-Speed dell’Oxford Institute: “Serve restringere il campo”.
Tagli al personale del Dipartimento all’Energia rallentano i prestiti. Stephen Ezell dell’ITIF avverte: “Possiamo espandere il nucleare, ma non basta qualche SMR per data center: serve un approccio di governo integrato”.
Non mancano i segnali positivi: i permessi ora sono più rapidi, e crescono gli investimenti nella produzione domestica di combustibile. Ma il caso NuScale è emblematico: pioniera degli SMR, ha visto il progetto in Idaho cancellato a causa di costi triplicati.
Eppure la tecnologia funziona – reattori da 77 MW assemblabili in fabbrica – e potrebbe essere la risposta, se standardizzata e supportata da una visione nazionale.
La gara per esportare nucleare nel mondo
Il boom interno cinese è solo il preludio. La vera partita si gioca all’estero. Pechino offre pacchetti completi: reattore, finanziamento, formazione, manutenzione ventennale. In Africa, America Latina, Medio Oriente – dove la domanda elettrica cresce a ritmi asiatici – questi progetti “chiavi in mano” sono irresistibili.
La Rosatom russa lo fa da decenni; ora arriva il Dragone. La Cina supera gli Usa anche nell’innovazione applicata, con reattori di quarta generazione già in rete, tecnologie che consumano meno uranio o lo riciclano e reattori al torio.
Un rapporto recente avverte: Pechino è 10-15 anni avanti nella capacità di mettere in campo su larga scala reattori avanzati. È la storia del solare e delle batterie che si ripete: gli Usa inventano, la Cina scala, e finisce per dominare il mercato.
Paul Saunders del Center for National Interest è realista: “Possiamo convincere gli alleati a non comprare cinese, ma decine di Paesi in via di sviluppo sceglieranno Pechino se Washington non ha reattori pronti all’export”.





