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Tutte le ipocrisie ambientalistiche alla Cop26

L'articolo di Tino Oldani per Italia Oggi

Su Youtube c’è un filmato di due minuti, postato da Flightradar.com e diventato virale, che mostra il numero incredibile di jet, circa 400, che sono piombati sull’aeroporto di Glasgow da ogni parte del mondo per la Cop26 sul clima. Lo scopo dell’autore è chiaro: documentare una delle tante contraddizioni che hanno caratterizzato il vertice indetto dall’Onu per contrastare il riscaldamento globale, riducendo le emissioni di CO2. Si dà il caso, però, che gli aerei, consumando molta benzina, sono i mezzi di trasporto più inquinanti. E la loro concentrazione su Glasgow, dove sono arrivati e partiti gli aerei dei rappresentanti politici di 196 paesi, oltre a quelli dei vip privati invitati, primo fra tutti il patron di Amazon, Jeff Bezos, non ha certo contribuito alla lotta all’inquinamento.

Lungi da me l’idea di dare ragione a Greta Thunberg, che accusa i politici di fare solo del bla-bla-bla. Dietro a lei e al movimento ambientalista Fridays for futur, di cui è l’icona, agisce da anni una potente lobby della finanza mondiale, che ha puntato ingenti risorse sulla rivoluzione verde nell’economia: investimenti volti a trarre profitto dall’abbandono dei combustibili fossili come fonti di energia e dalla sostituzione delle industrie inquinanti con quelle sostenibili. Una svolta epocale, spinta con forza dai media mainstream e già in atto, comparabile all’avvento della prima rivoluzione industriale: distruggerà migliaia di aziende e milioni di posti di lavoro giudicati obsoleti, prima di crearne dei nuovi. Costi sociali dei quali Greta e il suo movimento non sembrano curarsi affatto.

Dalla Cop26 sono emersi alcuni dati che è bene ricordare: i maggiori inquinatori mondiali sono la Cina, responsabile del 28% delle emissioni totali di CO2, seguita da Stati Uniti (15%), India (7%) e Russia (5%). L’Europa, nel suo insieme, arriva all’8%, che è la somma di paesi già virtuosi, con la Germania (2%) che inquina un po’ di più degli altri paesi più grandi: Francia, Gran Bretagna, Italia e Polonia, tutti con appena l’1% delle emissioni inquinanti su scala mondiale. Un’inezia rispetto alla Cina, che ha appena riaperto le miniere di carbone per sostenere la ripresa economica post-pandemia, e ha sì accettato l’invito di Mario Draghi, durante il G20, di ridurre le emissioni inquinanti, ma spostando il traguardo di emissioni zero in avanti di dieci anni rispetto all’Europa, al 2060 invece che al 2050. L’India, dove tutto funziona ancora con il carbone, ha rinviato lo stesso obiettivo addirittura al 2070. Di fatto, i due paesi responsabili del 35% dell’inquinamento mondiale hanno deciso di seguire una strada propria, segnando il fallimento della Cop26.

Quanto agli Usa, è vero che Joe Biden ha promesso di rispettare l’accordo di Parigi sul clima del 2015 (limitare il riscaldamento globale all’1,5%), da cui Donald Trump si era dissociato: ma è assai dubbio che riesca a mantenere la promessa, visto che il suo piano di rilancio dell’economia di 3mila miliardi di dollari è stato appena dimezzato dal Senato Usa, per iniziativa di un gruppo di senatori che non vogliono saperne di sacrifici per il clima. In questo scenario, la Commissione Ue, guidata da Ursula Von der Leyen, ha lanciato il Green Deal come asse portante di una nuova politica economica europea, che punta a vietare le auto a benzina e diesel dal 2030 in poi, per arrivare all’emissioni zero di CO2 entro il 2050. «È il piano green più ambizioso al mondo», si è vantata Ursula. Dietro l’ambizione, però, si celano costi sociali ingenti, che non hanno tardato a venire fuori. Così ecco una nuova tassa, l’Ets (Emission trading scheme), sui settori industriali ritenuti più inquinanti (siderurgia, cemento, chimica, vetro, ceramica), a cui sono stati aggiunti il riscaldamento domestico e i trasporti. Ecco l’immediato rincaro dei carburanti e del gas, quest’ultimo aggravato dal ricatto di Vladimir Putin, che ha ridotto le forniture di gas all’Europa per ottenere in tempi brevi il via libera della Germania e dell’Ue al gasdotto Nord Stream 2. Ed ecco le prime chiusure in Italia, con annessi licenziamenti, di imprese della componentistica auto, spiazzate dalla corsa all’auto elettrica, che per la costruzione abbisogna di appena 250 pezzi, contro i 2.400 delle auto a benzina e gasolio.

In Europa, l’unico paese che sembra attrezzato per affrontare la transizione verde è la Germania, dove Volkswagen aveva già annunciato la costruzione di vetture soltanto elettriche. In Italia, il governo di Draghi e l’intero establishment dell’industria e della finanza continuano a dichiararsi favorevoli all’avvento di un’economia sostenibile, in linea con il Green Deal Ue. Ma un calcolo attendibile delle risorse necessarie per attuare la conversione verde di interi settori industriali e delle altre attività costrette ad adeguarsi alle direttive Ue non è noto. Di certo, serviranno più dei 200 miliardi del Pnrr, che potranno coprire solo una piccola parte degli investimenti necessari, a patto che il governo riesca a rispettare le condizionalità poste dalla Commissione Ue, pena la restituzione di tutti i fondi.

Archiviato il G20, che è stato uno spot turistico ben riuscito per Roma, e archiviato la Cop26 di Glasgow, che ha fallito gli obiettivi, per l’Italia sarebbe bene prendere atto che la retorica ambientalista ha stufato e cessato la propria spinta propulsiva, mentre si va consolidando il timore che, tra nuove tasse, bollette più care, aziende che chiudono e posti di lavoro persi, la rivoluzione green assomigli sempre più a un suicidio. Draghi ha bene operato sui vaccini e sul Pnrr. Ora serve un’agenda credibile per la transizione verde e digitale dell’industria e dell’intero paese, da attuare con la stessa competenza e determinazione.

 

Articolo pubblicato su ItaliaOggi

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