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Tassonomia

È possibile coniugare crescita economica e tutela dell’ambiente?

La transizione energetica è considerata un obiettivo assolutamente prioritario. Ma come coniugare la tutela dell’ambiente e la promozione della crescita? L'articolo di Carlo Stagnaro dall’ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine.

Il vertice sul clima di Glasgow (31 ottobre – 12 novembre 2021) si è concluso con tre documenti praticamente identici. Essi riflettono la diversa composizione e finalità dei meeting che si sono svolti in parallelo nella città scozzese: la Cop26, la Cmp16 e la Cma3. È importante capire queste sigle per cogliere meglio il significato delle parole condivise dai firmatari. La prima si riferisce al ventiseiesimo incontro tra i 197 membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico; la seconda ai 192 aderenti al Protocollo di Kyoto; la terza ai 175 firmatari dell’Accordo di Parigi. È quest’ultimo, in verità, il cardine dell’attuale (geo)politica del clima ed è a esso che bisogna riferirsi per interpretare le parole e le sfumature del summit.

L’Accordo di Parigi impegna i contraenti a ridurre le emissioni di gas serra in misura sufficiente a contenere l’aumento della temperatura media globale, da qui al 2100, “ben al di sotto” della soglia di 2 gradi centigradi e, se possibile, entro quella considerata sicura di 1,5 gradi. Al momento, il termometro segna già 1,2 gradi, pertanto quest’ultimo obiettivo è assai difficile da raggiungere, sebbene non impossibile.

LA LOGICA DI KYOTO E LA SVOLTA DI PARIGI

Fino ad alcuni anni fa, la diplomazia climatica era mossa dal tentativo di stabilire target vincolanti in termini di riduzione delle emissioni: per esempio, Kyoto (1997) richiedeva agli aderenti (ma de facto l’impegno riguardava solo i paesi industrializzati) di tagliare le rispettive emissioni del 5,2 per cento al di sotto dei livelli del 1990 entro il quinquennio 2008-2012. A ciascuno Stato veniva assegnato un obiettivo nazionale (l’Unione europea doveva raggiungere il –8 per cento), che sarebbe stato poi verificato e, se non raggiunto, avrebbe dato luogo a sanzioni. Questo approccio “esogeno” alle riduzioni nazionali ebbe vita breve: fin da subito se ne chiamarono fuori gli Stati Uniti. L’Europa vi partecipò, facendo della sostenibilità un elemento identitario, ma la Cina e le altre grandi economie emergenti manifestarono una forte refrattarietà (non del tutto ingiustificata visto i bassi livelli di reddito ed emissione pro capite). In sostanza, la logica di Kyoto si rivelò presto insostenibile e fu chiaro che non avrebbe potuto continuare.

Questo portò a un periodo di crisi nei negoziati, dai quali non uscirono grandi annunci e che, anzi, si risolsero spesso in un fiasco, specie quando i delegati entravano con alte aspettative (il caso più clamoroso fu a Copenaghen nel 2009). Non furono anni persi: attraverso un lungo e complesso lavorio sotterraneo, consentirono di cambiare completamente approccio.

Fu così che, nel 2015, vi fu a Parigi una vera e propria svolta. In pratica, venne del tutto abbandonata l’idea di una gestione centralizzata dei target, cedendo invece il passo a un processo bottom up: gli Stati membri dovevano presentare proposte volontarie. Qualunque obiettivo loro avessero offerto, sarebbe diventato però vincolante. Il segretariato di Parigi si sarebbe occupato di aggregare gli impegni nazionali e simularne l’impatto complessivo. Naturalmente, gli impegni iniziali si rivelarono gravemente insufficienti. Ma la crescente sensibilità per il tema ambientale e la pressione interna delle opinioni pubbliche, oltre a quella esterna dei “pari”, indussero e continuano a spingere molti a rivedere continuamente al rialzo le proprie ambizioni. Sicché, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, se oggi tutti rispettassero gli impegni assunti a Glasgow, l’obiettivo di mitigazione del riscaldamento globale sarebbe in vista: l’aumento atteso della temperatura si fermerebbe, infatti, a 1,8 gradi.

GLI IMPEGNI DI GLASGOW

La dichiarazione finale rappresenta la sintesi di questi impegni e indica la strada futura. Il dibattito pubblico si è concentrato su due espressioni, che molti hanno trovato deludenti: la promessa di “accelerating efforts” allo scopo di “phasedown” l’utilizzo del carbone “unabated” nella generazione elettrica e di “phase-out” i sussidi “inefficienti” alle fonti fossili. Sono parole delicate. Il carbone è considerato il grande colpevole del cambiamento climatico: è il principale responsabile delle emissioni globali, di cui genera poco meno della metà. Tuttavia, è anche la fonte maggiormente utilizzata nei paesi in via di sviluppo, e anche una tra le più economiche, per cui la sua eliminazione repentina avrebbe un impatto asimmetrico sui paesi ricchi e quelli poveri. Al mondo esiste una capacità complessiva di circa duemila gigawatt a carbone: di questi, la metà si trovano in Cina, un ottavo (in calo) negli Usa e un ottavo (in crescita) in India. Si capisce quindi che le nazioni a basso reddito si siano battute per reclamare il loro diritto a svilupparsi. Contemporaneamente, i sussidi alle fonti fossili sono anch’essi localizzati soprattutto nel mondo in via di sviluppo, dove prendono perlopiù l’aspetto di prezzi “politici” per garantire l’accesso al riscaldamento o ai carburanti alla popolazione. Ciò comporta, ovviamente, non solo un problema negoziale, ma anche uno sforzo comparativamente molto maggiore per i paesi ad alto reddito, i quali – essendo peraltro responsabili di gran parte dello stock di emissioni in atmosfera – dovranno correre non solo per decarbonizzare le rispettive economie, ma anche per supportare (tecnologicamente e finanziariamente) le nazioni meno fortunate.

IL COSTO DELLA TRANSIZIONE ENERGETICA

Come se la situazione non fosse già abbastanza complessa, la conferenza di Glasgow si è svolta in un momento del tutto peculiare: mentre i leader discutevano di come ridurre la dipendenza dai fossili, i prezzi del petrolio e soprattutto del gas (e, a ruota, dell’energia elettrica) stavano raggiungendo livelli record sia per entità, sia per durata. Gran parte dell’ondata inflattiva che sta preoccupando il mondo è trainata dalle commodity energetiche. Sicché, gli stessi capi di governo che dentro il meeting chiedevano lo sganciamento dai fossili, uscendone protestavano contro i paesi produttori perché non trivellano abbastanza e approvavano manovre miliardarie per sgravare i consumatori degli aumenti. In Italia, per esempio, le misure per la riduzione delle bollette in appena nove mesi (dal terzo trimestre 2021 al primo 2022) costano più dell’intera riforma fiscale deliberata per il nuovo anno, e altri miliardi stanno per essere stanziati.

È qui che i buoni consigli entrano in conflitto col cattivo esempio. La transizione energetica è considerata un obiettivo assolutamente prioritario: tutti i paesi industrializzati hanno promesso di arrivare alla neutralità carbonica (cioè a zero emissioni nette) entro il 2050. L’Unione Europea ha fissato un obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni del 55 per cento entro il 2030. Ma i costi per raggiungere questi target appaiono enormi, e rischiano di colpire soprattutto le famiglie a basso reddito e le imprese industriali energivore da cui dipendono una fetta importante dell’occupazione e della competitività europee. Non solo: la pressione per il disinvestimento dalle fonti fossili, che ha un’enorme influenza sui mercati finanziari e che si sta cristallizzando nella tassonomia europea degli investimenti sostenibili, ha probabilmente contribuito a creare l’attuale tensione sui prezzi delle materie prime. Tensione, oltre tutto, che non sembra essere un fuoco di paglia, ma – almeno in parte – pare destinata a diventare strutturale nel medio termine. Come coniugare obiettivi ugualmente importanti, quali la tutela dell’ambiente e la promozione della crescita? E, a monte, esiste una gerarchia tra di essi oppure uno va considerato sovraordinato all’altro? Una parte forse inevitabile della retorica tipica della diplomazia climatica vuole che l’ambiente sia una variabile indipendente, ma l’esperienza dice il contrario. Forse questa ipocrisia è necessaria. Ma certo non aiuta a fare chiarezza né a trovare soluzioni che mai come oggi sono state necessarie.

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