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Svizzera Testa

Perché non possiamo davvero dire addio alle fonti fossili. L’analisi di Chicco Testa

Carbone, petrolio e gas non sono destinati a eclissarsi in breve tempo. Più probabile un’evoluzione diversificata fra i diversi continenti: più elettrico nei paesi sviluppati, permanenza dei fossili altrove. L'articolo di Chicco Testa dall’ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine.

 

Dalla rivoluzione industriale in poi i combustibili fossili hanno letteralmente alimentato il mondo. Ne hanno costituito il nutrimento che ha messo in moto macchine industriali e mezzi di trasporto, scaldato case ed uffici. Ci hanno dato enormi quantità di elettricità. Hanno messo anche fine, almeno in gran parte, all’uso di altri combustibili naturali come il legname, l’olio di balena ed altri grassi naturali. Ha salvato più balene il petrolio che Greenpeace ha detto qualcuno. Prima il carbone, poi il petrolio ed infine il gas. Con la chimica si sono anche trasformati in concimi, medicinali, cosmetici, detergenti, fibre plastiche. È letteralmente impossibile immaginare il mondo moderno senza questo “regalo” accumulatosi in milioni di anni di storia naturale e lasciato nel sottosuolo a nostra disposizione.

Il loro consumo ha continuato a crescere fino alle cifre odierne che appaiono gigantesche. All’incirca e ogni giorno 100 milioni di barili di petrolio (1 barile uguale 159 litri), 15-20 milioni di tonnellate di carbone, più di 10 miliardi di metri cubi di gas.

Ci hanno anche lasciato in eredità, è il prezzo che abbiamo pagato, notevoli problemi ambientali. Alcuni li abbiamo affrontati e parzialmente risolti. La Londra degli operai di Engels, ma anche quella dello smog di Winston Churchill, sono un lontano ricordo. L’inquinamento nell’ex triangolo industriale italiano è diminuito negli ultimi 30-40 anni del 90%. Persino Pechino è riuscita a ripulirsi almeno in parte. Frutto di migliori tecnologie e di un’economia sempre più dematerializzata. Ma sono ancora il principale produttore di gas serra e del nuovo problema ambientale che ci troviamo ad affrontare: il riscaldamento globale.

Liberarsene appare però un compito gigantesco, viste le cifre in gioco e le dimensioni planetarie di questo epocale cambiamento. Ancora oggi i combustibili fossili contribuiscono per più dell’80% al fabbisogno energetico primario del pianeta. E hanno vantaggi competitivi quasi insuperabili. Una fonte energetica viene solitamente classificata per cinque caratteristiche. Densità, la quantità di energia contenuta in un certo volume; programmabilità, la possibilità di usarla quando serve; divisibilità, la sua disponibilità nelle quantità richieste; trasportabilità, la uso là dove serve; abbondanza e costo. Le riserve stimate sono ancora enormi e nessuna penuria fisica si è manifestata, nonostante molte previsioni catastrofiche. Il loro costo, recentemente impennatosi per l’aumento della domanda e la relativa scarsità di offerta dovuta principalmente alla riduzione degli investimenti in ricerca di nuovi giacimenti, potrebbe tornare a scendere qualora l’offerta tenesse il passo. Da questo punto di vista il prezzo alto è una buona notizia che stimola la loro produzione. Per ciascuna di queste caratteristiche le fonti fossili sono praticamente imbattibili.

Ma nel nostro dibattito a queste cinque caratteristiche se ne è recentemente aggiunta una sesta. La sostenibilità ambientale. Un handicap decisivo che ne costituisce un deficit strutturale destinato a pesare molto. Il candidato principale, praticamente quasi l’unico disponibile, per la sostituzione si chiama elettricità. Ma attenzione: la maggior parte dell’elettricità prodotta oggi nel mondo si fa… con i combustibili fossili. Carbone prima di tutto, gas e uranio. Quindi non basta dire elettricità, ma bisogna aggiungere fatta con fonti rinnovabili o al massimo con il nucleare, che ha il pregio di essere privo di emissioni climalteranti.

Le fonti rinnovabili, giusto per dare le dimensioni della sfida, oggi contano per meno del 5% del fabbisogno energetico mondiale. Inoltre, come è noto, presentano un difetto strutturale: la loro intermittenza, vale a dire una disponibilità ridotta, poco prevedibile e non programmabile, almeno per le due principali: sole e vento. Da qui la necessità di accoppiarle a sistemi di accumulo che da sempre rappresentano la sfida non (ancora) vinta del mondo elettrico. Quindi grandi investimenti necessari in batterie, con il limite per il momento rappresentato dai materiali necessari, litio e cobalto in primo luogo, non disponibili nelle quantità necessarie; idrogeno, che a sua volta esige grandi quantità di elettricità per essere prodotto; sistemi di pompaggio idroelettrico non facilmente localizzabili.

Le quantità di energia elettrica da rinnovabili necessaria appare di grandezza inusitata. Quantità che è persino difficile immaginare. L’elettricità dovrebbe infatti in primo luogo sostituire buona parte dei combustibili fossili oggi utilizzati. Ricordiamo che mediamente l’elettricità rappresenta circa il 20% dei consumi energetici e che questo 20% è oggi prodotto in grande maggioranza con combustibili fossili. Solo per l’Italia, giusto per fare un esempio in casa, questo significherebbe raddoppiare la quantità di energia elettrica consumata dagli attuali 320 TWh a più di 600TWh, tutti prodotti da rinnovabili. Il che significherebbe realizzare impianti rinnovabili per circa 20.000 MW ogni anno da qui al 2050. Per capirci oggi ne realizziamo meno di 1.000 e da qui al 2030 ne sono previsti nel nostro piano energetico un totale di 70.000: 8.000 all’anno, che difficilmente saranno raggiunti. E comunque ben lontani dalle necessità.

Lo stesso esercizio andrebbe fatto per tutta l’area Ocse, Europa, Usa, Giappone, eccetera, dove le quantità di energia elettrica in gioco sono colossali.

Ma poi c’e’ un altro problema. Tutto il resto del mondo non Ocse, vale a dire nel giro di qualche decennio i quattro quinti della popolazione mondiale. Che dispone di consumi energetici che sono una frazione dei nostri. Se l’Italia ha un consumo procapite di circa 5.000 kWh, nel continente africano parliamo di qualche centinaio di kWh a testa. Per tutta questa parte del mondo aumentare la disponibilità di energia è questione di vita o di morte. Senza energia non vi è crescita economica, senza crescita economica non vi è benessere, educazione, cure sanitarie, speranza di vita. È solo il caso di ricordare che senza di loro la sfida della transizione energetica non si vince. Il riscaldamento del pianeta non è un fenomeno locale. O si vince dappertutto o è una battaglia persa. Anche loro, quindi, dovrebbero aumentare soprattutto la produzione di energia elettrica. Da rinnovabili. Avranno anche loro, o dovrebbero avere, auto elettriche da alimentare, idrogeno da produrre.

Ma, onestamente, non vedo a breve-medio termine la fine dei combustibili fossili. Tutt’altro. La via più conveniente per produrre energia in grandi quantità rimangono i combustibili fossili. Carbone, petrolio e gas non sono destinati ad essere eclissati in poco tempo. Piuttosto immagino un’evoluzione diversificata fra i diversi continenti. Probabilmente una penetrazione più spinta del vettore elettrico nel mondo sviluppato, Europa in primo luogo, e un ricorso ai combustibili fossili nel resto del mondo ancora per lungo tempo.

Produrre energia elettrica senza emissioni di CO2 rimane un compito arduo. Non abbiamo parlato qui di energia nucleare sulla quale però diversi paesi puntano molto. La Cina, per esempio, immagina un mix fatto di rinnovabili e di energia nucleare. Il suo ruolo potrebbe essere molto importante, soprattutto se le innovazioni attese ne aumentassero la sicurezza e ne diminuissero il costo.

E poi ci sono sempre le sorprese che l’innovazione tecnologica, sempre più accelerata, ci può regalare. Batterie, carbon sequestration, fusione. E tutte le altre diavolerie che la mente umana saprà sfornare.

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