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Vi spiego la manovra politica dell’Arabia Saudita con il petrolio

La mossa dell’Opec+ sul petrolio, ispirata dall’Arabia Saudita, è una sfida agli Usa o una sorta di viatico per l’incontro tra Bin Salman e Trump? L'analisi di Giraldo

La decisione dell’Opec+ di aumentare la produzione di petrolio per il secondo mese consecutivo (altri 411.000 barili al giorno in più) ha fatto scendere i prezzi del petrolio Brent di quasi il 4% all’apertura dei mercati, a 58.85 dollari al barile. Le quotazioni del riferimento europeo poi sono risalite sopra i 60 $/Bbl. Simile l’andamento del petrolio WTI, che ha toccato il punto più basso a 55.30 $/Bbl per poi tornare sopra i 57 $/Bbl. Si tratta di valori intorno ai minimi da 4 anni a questa parte.

Il prezzo della benzina alla pompa in Italia ha già mostrato cali sensibili ad aprile e potrebbe adeguarsi presto a questa nuova discesa. In aprile il prezzo della benzina (media Italia) è sceso del 3,45%, quello del gasolio del 4% (dati Mimit), complice anche il rafforzamento dell’euro sul dollaro. I dati del Mimit per il giorno 5 maggio mostrano un prezzo medio nel nostro Paese, al self-service ed escluse le autostrade, pari a 1,683 euro al litro, valore già più basso della media di aprile (gasolio a 1,578 euro/litro).

Si vedrà se questo calo proseguirà o se i prezzi si stabilizzeranno, ma occorre dire che sul petrolio è in corso una partita enorme.

Prima di questa mossa dell’Opec+ le stime parlavano di un surplus di offerta rispetto alla domanda mondiale pari a 550.000 barili al giorno per il 2025. Se null’altro cambia, questo surplus rischia di arrivare ad 1 milione di barili al giorno a fine anno.

Possibile che l’Arabia Saudita, dominus del cartello OPEC+, punti a un eccesso di offerta che schiaccerebbe i prezzi a 50 dollari al barile? Ad una prima analisi si direbbe che la strategia saudita sia di occupare quote di mercato per spazzare via i produttori di olio di scisto americani, che hanno bisogno di un prezzo di almeno 65 dollari al barile per essere profittevoli sulle nuove estrazioni.

Questa potrebbe essere una motivazione, così come potrebbe esserci da parte saudita l’intento di disciplinare i membri dell’Opec+ riottosi a rispettare le quote di produzione, come il Kazakistan.

Vi sono però diversi elementi di contorno. In Texas il costo di produzione medio è sui 50 $/Bbl e la Casa Bianca ha lasciato intendere di ritenere che un prezzo attorno ai 50 dollari al barile sia gestibile dai produttori americani, perché ciò stimolerebbe l’efficienza e la ricerca tecnologica. Potrebbe essere solo un pio desiderio e il Texas, la seconda economia degli USA dopo la California, potrebbe scivolare facilmente in recessione.

Tuttavia, è anche possibile che i produttori più piccoli e meno efficienti siano assorbiti dalle grandi compagnie, che hanno struttura di costi e finanza adatte a gestire anche lunghi periodi di prezzi bassi. Chevron ed Exxon, ad esempio, hanno già detto di voler aumentare le estrazioni nel bacino del Permiano anche con prezzi bassi. In altre parole, una maggiore concentrazione del settore petrolifero negli USA è uno degli esiti probabili dei bassi prezzi.

Questo scenario è coerente con il “drill baby, drill” di Donald Trump, il quale potrebbe anche utilizzare la leva fiscale per dare respiro ai produttori e consentirgli di stare sul mercato. O anche, come ha scritto ieri sul Wall Street Journal il segretario al tesoro Scott Bessent, deregolamentare per dare ai produttori più vantaggi e meno costi.

L’elemento più importante però è quello dei rapporti tra USA e Cina, Iran, Russia e Arabia Saudita.

In questi giorni Trump ha avvisato: “Chiunque acquisti petrolio o prodotti petrolchimici iraniani sarà soggetto a sanzioni secondarie e non potrà commerciare con gli Stati Uniti”. Vale la pena ricordare che il 90% del petrolio iraniano finisce in Cina. Le minacce dell’Amministrazione USA all’Iran sono molto serie, considerato ciò che ha detto giovedì il segretario alla difesa Pete Hegseth a proposito dell’Iran, minacciando ritorsioni armate per gli aiuti agli yemeniti houti. Se vi fossero nuove sanzioni robuste sul petrolio iraniano potrebbero sparire dall’offerta mondiale fino a 1 milione di barili al giorno. Casualmente, si tratta proprio del surplus previsto a fine anno, che a quel punto non esisterebbe più. Più ancora: nel caso di un attacco all’Iran, le cui probabilità sono in crescita, ad opera di Israele o degli USA, farebbe ripartire i prezzi verso l’alto.

Domenica Trump, in una intervista, si è detto pessimista sulla pace in Ucraina, il che fa pensare che vi possa essere una nuova ondata di sanzioni contro la Russia, attraverso le quali il petrolio russo sarà certamente colpito. Questo dovrebbe rappresentare un incentivo per la Russia per porre fine alla guerra, considerato che per Mosca il petrolio è una ingente fonte di guadagno che verrebbe colpita duramente. Se venisse a mancare dal mercato anche solo una parte dei volumi dalla Russia e dall’Iran, insomma vi sarebbe spazio alla produzione di altri paesi, tra cui anche gli Stati Uniti.

Trump il prossimo 14 maggio sarà in visita ufficiale a Riad e sul tavolo c’è moltissimo: Gaza, guerra in Ucraina, houti, energia, armi, investimenti, Russia, Iran, deficit arabo (15,65 miliardi di dollari nel primo trimestre 2025) e titoli di stato USA.

La mossa dell’Opec+, ispirata dall’Arabia Saudita, è una sfida a Washington o una sorta di viatico per l’incontro tra Mohammed Bin Salman e Donald Trump? In ogni caso il convitato di pietra a Riad sarà la Cina: Pechino è il maggior cliente del petrolio arabo, grande partner commerciale dell’Arabia Saudita e grande acquirente di greggio da Russia e Iran. E questa settimana Xi Jinping farà visita a Vladimir Putin a Mosca.

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