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Nella lotta al cambiamento climatico dobbiamo evitare false promesse. L’analisi Clò

Il commento di Alberto Clò, economista e direttore della rivista Energia

 

L’azione internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici, cominciata circa mezzo secolo fa, si è sviluppata lungo tre fondamentali tappe:

  • la prima fu Conferenza di Stoccolma del 1972 che approvò la Dichiarazione di Stoccolma che fissava in 26 principi l’insieme di responsabilità degli Stati nella protezione dell’ambiente;
  • la seconda fu la Conferenza di Toronto del 1988 che inserì per la prima volta tra le raccomandazioni finali un obiettivo di “riduzione delle emissioni globali della CO2 del 20% entro il 2005” (totalmente fallito);
  • la terza fu l’United Nations Conference on Environment and Development (UNCED), l’Earth Summit tenutosi a Rio de Janeiro dal 2 al 14 giugno 1992 – cui aderirono 172 Stati con la partecipazione di 108 Capi di Stato e di governo, 19.000 delegati – che portò alla firma da parte di 154 Stati, poi saliti a 197, della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) entrata in vigore il 21 marzo 1994.
    Nelle previsioni iniziali, la Convenzione non poneva limiti obbligatori e legalmente vincolanti ai singoli Stati per le emissioni di gas serra. Prevedeva però la possibilità che le parti firmatarie potessero adottare in apposite Conferenze annuali – le Conferenze delle Parti (COP) – ulteriori atti che introducessero limiti obbligatori. Da allora si sono tenute ben 24 COP: dalla prima in Germania (Berlino) del 1995, alla terza Giappone (Kyoto), ove si firmò il Protocollo di Kyoto, sino alla COP 24 in Polonia (Katowice) e alla COP 25 che si terrà dal 2 al 13 dicembre prossimo a Santiago del Cile.

La più parte delle COP (non tutte!) ha consentito di fare un piccolo passo in avanti, sino alla grande speranza suscitata nella COP 21 dalla sottoscrizione del famoso Accordo di Parigi da parte di 196 Stati. Per la prima volta, la totalità degli Stati – e al loro interno comunità locali, organizzazioni scientifiche, industrie – si impegnavano a ridurre le emissioni di gas serra, avendo preso coscienza dell’impatto dei modelli dominanti di produzione e consumo sul nostro Pianeta. Un’intesa che ricreava fiducia sulla capacità diplomatica del sistema multilaterale delle Nazioni Unite nell’individuare e raggiungere soluzioni collettive a problemi per loro natura globali.

Ma le cose non sono affatto andate così. Dopo il 2015 esse sono nettamente peggiorate rispetto sia a prima che, a maggior ragione, ai percorsi che gli Stati si erano impegnati di fare nei loro Piani Nazionali, gli Intended Nationally Determined Contributions secondo un approccio volontario bottom–up deciso da ciascuno Stato in piena autonomia con piani à la carte declinati in base alle loro specifiche situazioni.

L’obiettivo congiunto era quello di: “mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali”. Ma se guardiamo alla crescita dei consumi di energia, al persistente dominio delle fonti fossili, alla marginalità delle rinnovabili e all’aumento delle emissioni, non si riscontrano grandi passi in avanti.

Parigi avrebbe potuto/dovuto costituire un’utile cornice politica per un’azione congiunta degli Stati, nonostante facesse affidamento solo sulla loro buona volontà. Quello che gli Stati hanno realmente fatto in quattro anni è stato tuttavia niente rispetto a quel che sarebbe stato necessario fare. A iniziare dal mancato rispetto degli impegni assunti dai paesi ricchi a Copenaghen dieci anni fa verso i paesi poveri per sostenerne le politiche climatiche.

Allo stato delle cose, Parigi non è stata la ‘svolta storica’ universalmente acclamata – un “trionfo monumentale per la popolazione e il nostro Pianeta” ebbe a dichiarare il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon – ma solo vacue ‘parole al vento’. Molti incontri e poche azioni: espressione di quell’ipocrisia organizzata che caratterizza larga parte delle relazioni internazionali.

Nei loro interventi al Summit di New York sarebbe perciò importante che i rappresentanti dei governi indicassero con chiarezza le ragioni che hanno impedito di rispettare gli impegni assunti – il recente Sustainable Development Report 2019 afferma che “nessun Stato è sulla buona strada” nel raggiungimento dei 17 SDG mentre in molte aree si è perso terreno – più che lanciarsi in nuove false promesse.

(estratto pubblicato su rivista Energia, qui l’articolo completo)

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