La decisione di non rinnovare il taglio delle accise sui carburanti, che ha portato a un repentino aumento dei prezzi alla pompa per benzina e diesel, ha riaperto il dibattito periodico sul caro-carburanti.
La discussione odierna segna però due differenze sostanziali rispetto al passato. Primo, in genere il dibattito si apre in occasione di una forte crescita dei prezzi sui mercati internazionali del greggio, mentre oggi siamo di fronte a una riduzione del prezzo del barile almeno dalla metà dello scorso anno. Secondo, il dibattito si svolge in contemporanea all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che fra le sue missioni ne prevede una che parla di “rivoluzione verde e transizione ecologica”.
PERCHÉ I CARBURANTI AUMENTANO SE IL PETROLIO DIMINUISCE?
Sul primo punto, l’ovvia domanda è perché i prezzi dei carburanti sono aumentati se quelli del petrolio scendono.
La politica ha puntato subito il dito sulla speculazione dei distributori, causando una immediata reazione dei gestori e la necessità di un chiarimento con Palazzo Chigi. Un tema finora trascurato è quello della “traslazione dell’imposta”: l’idea è che un tributo non lo paga necessariamente chi è formalmente tenuto a pagarlo, dipende dalla domanda e dall’offerta. Nel caso dei carburanti, l’accisa la pagano di fatto i consumatori tramite prezzi più alti al dettaglio a causa della rigidità della loro domanda, che porta a una traslazione completa dell’imposta.
Infatti, i prezzi medi sono sostanzialmente aumentati del valore dell’accisa reintrodotta. Certo, il prezzo praticato dal singolo distributore dipende da molte altre variabili, in particolare dalla struttura industriale della distribuzione e della raffinazione in una determinata area. Questo determina una variabilità del prezzo tra gestori (che ciascuno può verificare per la zona di interesse sul sito del ministero, qui) nella quale si potrebbe annidare la speculazione, quando non vere e proprie truffe (per esempio, quella del prezzo esposto diverso da quello praticato).
PERCHÉ IL GOVERNO MELONI HA RINUNCIATO AL TAGLIO DELLE ACCISE?
Nell’ultima versione del “decreto carburanti”, il governo ha introdotto sia obblighi di informazione sui prezzi medi per i gestori (che dovrebbero aiutare i consumatori nella loro scelta del distributore presso il quale rifornirsi), sia un meccanismo di stabilizzazione automatico del prezzo che scatta oltre una certa soglia (al momento lontana).
Come è stato dimostrato anche da lavori accademici, un meccanismo di stabilizzazione basato sulle accise funziona abbastanza bene in media per sterilizzare gli aumenti di prezzo, ma non è certo una novità, nemmeno per l’Italia. Ma, al di là delle parole, le esperienze di effettiva attuazione in giro per l’Europa e nel mondo non sono così diffuse. Per esempio, il governo Jospin aveva introdotto la Taxe Intérieure sur les Produits Pétroliers (Tipp) “flottante”tra il 2000 e il 2002, ma i governi successivi l’hanno cancellata perché costava troppo per il bilancio pubblico. È la ragione per la quale l’attuale governo francese vi ha rinunciato, preferendogli altre misure contro il caro-energia. Ed è anche la ragione che spiega perché il governo Meloni ha rinunciato al taglio delle accise con la legge di bilancio (una misura che sarebbe costata circa 1,8 miliardi per il primo trimestre secondo i calcoli fatti qui).
COSA FARE
Le ragioni di gettito portano a una seconda domanda: potevamo evitare di reintrodurre l’accisa? Il vincolo di bilancio ha imposto una scelta politica sulle spese e sulle entrate da privilegiare nel 2023. Qui vale la pena fare qualche valutazione sui profili di efficienza e di equità dell’accisa sui carburanti.
Sul fronte dell’efficienza sono almeno tre le considerazioni: primo, la domanda rigida (nel breve periodo) suggerisce che non ci sono perdite di efficienza nel mercato dei carburanti. Secondo, nonostante l’accisa inglobi il finanziamento di un numero svariato di spese (a partire, ahinoi, dalla guerra in Abissinia), può essere letta come una tradizionale imposta pigouviana per la correzione di esternalità negative, in questo caso l’inquinamento (si veda nello specifico questo articolo di Marzio Galeotti e Alessandro Lanza). Prezzi più alti dei carburanti (anche per l’accisa) sono quindi coerenti con la rivoluzione verde e la transizione ecologica (nel medio-lungo periodo) del Pnrr. Terzo: meglio aumentare le accise, comunque un’imposta sui consumi, che non le imposte sul reddito. Sul fronte dell’equità, i dati aggregati suggeriscono che spendono di più per carburanti le famiglie ricche rispetto a quelle povere, quindi pagano anche più accisa (si veda la tavola 3 qui).
Queste considerazioni generali non scontano però l’impatto relativo rispetto al volume complessivo di consumi, né la rigidità della domanda: sono ragionevolmente le famiglie più povere quelle più in difficoltà a sostituire le autovetture inquinanti e a trovare alternative reali nel trasporto pubblico. Da questo punto di vista, la riflessione sull’accisa dovrebbe essere legata all’effettiva attuazione del Pnrr che prevede, per esempio, investimenti sostanziosi per rinnovare i vecchi bus e treni per il trasporto pubblico locale con nuovi mezzi a basse emissioni, ma anche misure per favorire la rigenerazione urbana e l’inclusione delle aree periferiche. Se con il Pnrr ci muoviamo davvero verso un mondo più inclusivo e più green, rinunciare allo sconto sulle accise potrebbe non essere affatto un errore.